Riassunto:
L’uomo ha sempre riflettuto su se stesso e sulla sua identità e la sua riflessione si è strutturata attraverso molteplici forme espressive. Le domande esistenziali nascono nell’uomo con il suo esistere. Il pensiero filosofico occidentale ha egemonizzato il campo filosofico e antropologico imponendo le proprie categorlie di pensiero come le uniche razionali e scientifiche in nome di una presunta superiorità legata a un’idea di sviluppo fondata su un modello prettamente economico. In questo articolo si cercherà di decostruire le certezze scientifiche del pensiero filosofico occidentale e analizzare criticamente il suo primato evidenziando come esistano diverse forme e rappresentazioni dell’esistenza umana. Il pensiero filosofico africano ci offre una prospettiva di lettura dell’essere che contrasta con la visione antropologica occidentale, ma allo stesso tempo ha una sua dignità e coerenza logica fondata su presupposti antropologici propri. Nata come resistenza al dominio del pensiero filosofico e antropologico occidentale, la filosofia africana si è sviluppata e contaminata dalle riflessioni che l’hanno preceduta. Non esiste un pensiero puro, poiché tutte le riflessioni umane sono ibride e nascono dall’incontro e dallo scontro con le altre posizioni filosofiche. Forse è venuto il tempo per riformulare il pensiero filosofico e antropologico da un punto di vista interculturale.
Parole-chiave: Decostruzione; Filosofia Africana; Uomo Africano; Identità Africana
Abstract:
Man has always reflected on himself and his identity. His reflection has been structured through multiple forms of expression. In fact, existential questions arise in man with his existence. Western philosophical thought has dominated the philosophical and anthropological field by imposing its own categories of thought as the only rational and scientific ones, in the name of an alleged superiority linked to an idea of development based on a purely economic model. This article attempts to deconstruct the scientific c certainties of Western philosophical thought and critically analyzes its primacy by highlighting how there are different forms and representations of human existence. African philosophical thought offers a perspective that contrasts with the Western anthropological vision, having its dignity and its logical coherence based on its own anthropological assumptions. Born as resistance to the domination of Western philosophical and anthropological thought, African philosophy has developed and has been contaminated by the reflections that preceded it. All human reflections are hybrid and arise from the encounter and confrontation with other philosophical positions. Perhaps the time has come to reformulate philosophical and anthropological thought from an intercultural point of view.
Keywords: Deconstruction; African Philosophy; African Man; African Identity
Introduzione
La prospettiva attraverso la quale viene condotta l’analisi in questo studio è necessariamente e volutamente generalizzante perché si è compreso che ci si trova di fronte a due sistemi di pensiero amplissimi come quello occidentale e quello africano. Partendo da queste premesse metodologiche è possibile affermare che il mondo occidentale ha sempre pensato di poter indagare l’essere e l’uomo attraverso le sue categorie filosofiche legate a un pensiero forte, razionale e scientifico capace di astrazione e superiore a qualsiasi altra speculazione intellettuale. Si tratta di un’operazione ideologica che, partendo dalle proprie categorie ipoteticamente universali, fa rapportare il pensiero occidentale all’“altro” partendo dal proprio modello. Inoltre, anche le scelte editoriali o accademiche hanno sempre dato maggior spazio a lavori di ricerca che potessero essere fruttuosi dal punto di vista economico.
In una posizione di rottura, rispetto a queste scelte e alle pretese di fondare un pensiero forte che fosse alla base in ogni campo del sapere e del pensiero è il relativismo filosofico e il pensiero debole di Vattimo. Quest’ultimo si fonda sull’idea che il pensiero filosofico non deve indagare la verità, in quanto non è in grado di conoscere l’essere e di conseguenza non può ricercare valori oggettivi e validi per tutti gli uomini. Nel caso italiano ed europeo una tale riflessione ha dato una svolta importante nel decostruire il pensiero forte occidentale e riabilitare le altre visioni filosofiche, ponendo fine alle grandi narrazioni.
Tra queste è possibile annoverare la filosofia africana nella sua dimensione antropologica. Non esiste un uomo che non abbia una filosofia (CORETH, 2004), una sua visione del mondo; e che, di conseguenza, nessun popolo e nessuna cultura o civiltà, possono essere privi di un proprio pensiero e atteggiamento filosofico nei confronti della realtà.
L’aggettivo “africana”, associato alla filosofia, potrebbe essere considerato molto estensivo, ma l’antropologia filosofica africana presenta tratti comuni tali da poter proporre un discorso abbastanza uniforme nei suoi elementi fondamentali. Il tratto comune più caratteristico del pensiero africano, compreso quello filosofico-antropologico, va ricercato nell’unità fra concezione dell’uomo, della natura e della dimensione religiosa. È di questo che lo studio qui presentato cerca di parlare, attraverso l’analisi del contributo prima dell’antropologia culturale alla decostruzione dell’immagine hegeliana e vittoriana del “selvaggio” (di preferenza africano), e poi del pensiero di alcuni fra i più noti interpreti della questione religiosa africana, collegando quindi antropologia culturale e pensiero filosofico a partire dalla centralità dello studio della religione.
1 L’inizio della “decostruzione”: il contributo dell’antropologia culturale
Fondamentale punto di partenza per una ricerca storica sulla filosofia africana contemporanea e sul processo di decostruzione del pensiero “forte” occidentale sull’uomo e sul mondo è la riflessione antropologica di epoca post-vittoriana, mentre una seconda svolta si apre, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, grazie all’opera dei primi interpreti (occidentali) del pensiero filosofico e religioso africano.
Tuttavia, viste le interconnessioni fra antropologia culturale e antropologia filosofica nel contesto africano, è possibile parlare di una linea di continuità fra tali tendenze, i cui concetti fondamentali sono espressi dal relativismo culturale e della visione olistica del mondo e della natura, che emerge dall’analisi sia delle pratiche che delle concezioni filosofico-religiose africane.
A corroborare tale linea di continuità fra questi due ambiti disciplinari differenti è il fatto che l’indagine antropologica, per sua natura e ancor di più se applicata al contesto africano, non intende cogliere i fenomeni sociali nella loro singolarità, ma connetterli agli altri: essa ritiene che ogni aspetto della società vada studiato prendendo in considerazione il fatto che questo interagisca con altri, “[...] dall’aspetto economico, all’organizzazione sociale, al potere della magia, alla mitologia, al folklore.” (MALINOWSKI, 1973, p. 24). Per esempio, se si vuole analizzare la casta indiana nella religione induista, occorre tener presente il lavoro, l’economia, il diritto, la morale. L’olismo, quindi, è un approccio ai fenomeni culturali che nasce dalla loro interdipendenza con quelli della vita sociale. Il discorso antropologico in generale e, quindi, anche sulla religione, vuole affrontare, in una prospettiva olistica, i propri oggetti di studio e creare contesti il più possibili dettagliati.
L’olismo sfocia in una idea universalista, contrapposta (cosi come il relativismo) alla concezione etnocentrica di scuola hegeliana. L’antropologia, fin dalla sua origine, raccoglie e prende in considerazione tutte le esperienze umane di vita culturale per condurle ad un comune denominatore, non escludendo niente dal suo sguardo. Questa attenzione si fonda sull’impresa etnografica, il cui stile partecipativo prevede la presenza dell’antropologo sul luogo di studio e non può essere ridotta all’analisi di testi. In questo senso il progetto etnografico è universale, perché l’antropologia si occupa di indagare dagli Indios Yanomamö della foresta Amazzonica in Venezuela e Brasile agli abitanti delle grandi megalopoli. La sua vocazione universalista discende dalle sue origini legate al pensiero razionalista e si oppone alle tendenze etnocentriche2 che tutte le società producono nel corso della loro vita sociale. Quindi l' universalismo si caratterizza per il suo anti-etnocentrismo. Il fatto che la scienza antropologica nasca in un contesto storico di dominio dell'occidente sul resto dell'universo-mondo comporta implicazioni notevoli. Infatti anch'essa non è totalmente libera dall'etnocentrismo, perché gli antropologi stessi interpretano i costumi degli “altri” con le griglie e le categorie concettuali della “propria cultura”. I primi antropologi, infatti, erano fortemente etnocentrici e proiettavano sugli altri, per difetto, le loro categorie.
Viceversa, con studiosi come Malinowski e Franz Boas, la vocazione critica dell’antropologia diventa l’abito stesso con cui guardare all’”altro”. Lo sguardo critico va applicato nei confronti di tutte le culture, della propria e delle altre. Come sostiene Fabietti,
[...] l’antropologia è un sapere che nasce sulla frontiera tra culture diverse. Ciò le conferisce delle caratteristiche particolari, non ultima delle quali quella di essere un sapere <meticcio>, in cui le idee di coloro che la praticano sono largamente influenzate (che lo si sappia o meno, che lo si voglia o no) da quelle di coloro che ne costituiscono l’oggetto. Se l’antropologia è un sapere critico è perché essa è un sapere di frontiera che nasce sulla frontiera tra culture. (FABIETTI, 2000, p. XII).
Come tale non si figura come un sapere <oggettivo> nel senso di una conoscenza prodotta da un soggetto osservante (l’antropologo) su un oggetto osservato (ciò che l’antropologo vuole studiare). L’esperienza etnografica consiste in uno scambio intersoggettivo tra l’antropologo e i suoi <informatori>. (FABIETTI, 2000, p. 83).
Quindi l’Antropologia è un fatto pubblico, non privato. Deve essere critica anche con la tendenza a idealizzare le idee e i costumi che studia. In questo senso, Lèvi-Strauss, in Tristi Tropici, parla dell’atteggiamento che a volte lo scienziato sociale assume nell’essere “critico a domicilio e conformista fuori”, cioè critico nei confronti dei costumi della propria società, accettando i costumi degli altri come un dato di fatto, magari sorvolando su quelli che, se fossero nella nostra cultura, sarebbero considerati repellenti e disumani.
Prima di giungere alla decostruzione, però, il pensiero antropologico dette un contributo decisivo alla stereotipizzazione del “selvaggio”, generalmente associato all’uomo africano e al concetto di anima e di animismo. Per Tylor, per esempio, l’animismo può essere considerata la base della religione (tutti hanno l’anima, umani, animali, piante ed esseri inanimati) e tutte le religioni hanno pari dignità. L’animismo, perciò, è il nucleo di partenza che rappresenta l’idea elementare della religione. Questa idea dello “stato selvaggio” si modifica perché, come le altre idee, è sottoposta a un processo di conformazione al nuovo, cioè la “sopravvivenza” di un’idea di qualcosa che resta nelle epoche, ma viene plasmata continuamente. Vi è una linea di continuità sull’idea di anima, ma anche di rottura e di trasformazione, dovuta al fatto che gli esseri umani si riposizionano rispetto al mondo che li circonda e la concezione di anima viene ripiegata a discorso sulla teologia. Essa è così rimasta come “sopravvivenza” in tutte le fasi evolutive. In una visione unitaria del genere umano viene argomentata in questo modo la congiunzione tra i “selvaggi” e i “civilizzati”. L’animismo così concepito si fonda su due dogmi. Il primo è che le anime degli individui continuino la vita dopo la morte del corpo, infatti l’anima può lasciare il corpo e muoversi da un luogo all’altro. Il secondo è l’esistenza degli spiriti sino alle divinità più potenti.
Al fine di dimostrare la sua ipotesi aprioristica, Tylor va alla ricerca di elementi universali: l’idea di anima che elabora è frutto di questa concezione. Inoltre, l’approccio intellettualistico ignora la dimensione collettiva della religione, ma anche la sua dimensione emotiva. Gli uomini per Tylor trasformano le idee in rapporto al mondo che li circonda. Tylor si propone quindi come il difensore dell’agire razionale umano, concependo un’umanità caratterizzata da una creatività diffusa nell’inventare sistemi teologici.
Di ispirazione ancora evoluzionista, James George Frazer (1854-1941) presenta un approccio allo studio della religione di tipo “intellettualista”, come era stato quello di Tylor. La notorietà è da lui raggiunta con la pubblicazione de “Il ramo d’oro” in cui Frazer cerca di ricomporre la sequenza degli stadi religiosi che hanno accompagnato la storia dell’umanità. Ogni fase sarebbe contraddistinta da un determinato livello intellettuale che è stato superato grazie al progressivo sviluppo della razionalità da parte dell’uomo.
La svolta “decostruzionista” del pensiero antropologico legato alla concezione dell’”altro” si ha, come detto sopra, com Malinowski e Boas. Nel primo caso, secondo Alessandra Ciattini, Malinowski è un “[...] esponente dell’impostazione emozionalistica negli studi antropologici sulla religione.” (CIATTINI, 1997, p. 66). Infatti per Malinowski
[…] sia la magia che la religione emergono in situazioni fortemente caratterizzate dal punto di vista emotivo. [...] Le nozioni religiose sono la cristallizzazione di stati emotivi come la paura, l’ansia, la speranza, che ci spingono ad aggrapparci fortemente ad una certa idea. [...] Per Malinowski magia e religione hanno, dunque, la stessa origine e funzione, che è essenzialmente catartica, e consiste nell’offrire con il rito o con la fede nel sovrannaturale una via d’uscita in situazioni senza altro scampo. (CIATTINI, 1997, p. 66).
Quindi la magia e la religione hanno la funzione di offrire risposte all’individuo che è impegnato ad affrontare alcuni bisogni primari dell’esistenza umana. Questa sua teoria è argomentata nel testo Magia, scienza e religione, pubblicato postumo nel 1948. Qui ci viene proposta l’immagine dell’uomo primitivo che, abbandonato dalla sua conoscenza e frustrato dalla sua esperienza, realizza la sua impotenza nelle impasse della vita quotidiana e arriva ad adottare la magia perché questa gli dà potere su certe cose. Ai rituali magici, inoltre, corrisponde uno spontaneo relativo all’anticipazione del fine desiderato. Infatti la magia è un’arte pratica nella sfera del sacro che realizza azioni come mezzi per un fine preciso. Colui che concepì il rituale di una nuova pratica magica in buona fede, era un uomo di genio, infatti la magia e la personalità di rilievo fra i selvaggi vanno di pari passo. La magia quindi ritualizza l’ottimismo dell’uomo e accresce la speranza sulla paura. Il mito, allora, in questa prospettiva, non è una sopravvivenza, ma è una forza viva, creata dalla magia. Esso racconta il miracolo originario della magia e si collega non solo ad essa, ma anche alla religione, al potere o al diritto sociale e giustifica privilegi straordinari. Il mito in questo senso non deve spiegare, ma garantire e dare fiducia al potere e fondare gli eventi: è per questo che nella magia la mitologia è solo l’esaltazione delle imprese umane.
Franz Boas accentuò il relativismo culturale, scartando l’idea di una antropologia come transizione dal semplice al complesso, evidenziando che ogni cultura - compresa quella degli Inuit - ha un suo percorso evolutivo esclusivo e peculiare, né migliore e né peggiore rispetto a tutte le altre.
L’antropologo che probabilmenter costituisce il ponte fra l’antropologia culturale relativista di Malinowski e Boas e il pensiero filosofico sull’uomo è Clifford Geertz (1926-2006), antropologo americano che ha inaugurato quella che viene definita come la corrente ermeneutico-interpretativa dell’antropologia. L’Antropologia interpretativa è una particolare prospettiva che emerge da una serie di filoni e tradizioni filosofiche, linguistiche e letterarie e si condensa, attorno agli anni Sessanta, in una concezione dell’Antropologia che non ne fa tanto una scienza o un sapere che mira alla scoperta di leggi, ricorrenze, modelli, quanto piuttosto un sapere, il cui scopo è la comprensione dei propri oggetti in una prospettiva ermeneutica.
Si tratta quindi di un’indagine sui significati prodotti dagli attori sociali. L’Antropologia interpretativa mira a produrre micro e non macro-analisi e tende a enfatizzare epistemologicamente la funzione dell’etnografia, che non è più considerata mera raccolta di dati, ma è un momento fondativo del sapere antropologico, perché tenta di instaurare una forma di dialogo tra osservatore e osservato che implica la creazione di uno sfondo comune di significato entro cui potersi intendere. Viene così introdotta l’idea che si devono cogliere i significati prodotti dai nostri interlocutori (gli osservati). Tali significati vengono prodotti in una continua dinamica circolare: non esistono più osservatori lontani dal proprio oggetto, cioè neutrali, ma gli antropologi sono soggetti che entrano in un dialogo con altri produttori di significati. Questo fa sì che i significati dell’uno siano influenzati dai significati dell’altro.
Studiando la religione come fenomeno complesso Geertz si lega a un’analisi più spiccatamente filosofica del pensiero e della cultura degli “altri”. Ogni religione, infatti, trova una sua realizzazione all’interno di un campo di significati e di simboli che sono specifici di una determinata cultura. Ma con questo saggio Geertz vuole reimpostare su basi nuove e originali lo studio di una religione, dandone una interpretazione molto più articolata e analitica, che non si accontenta di un’analisi descrittiva e superficiale, ma scava nello stato d’animo religioso e nelle sue motivazioni. Un approccio antropologico allo studio della religione deve, allora, prevedere l’analisi dei sistemi di significati incarnati nei simboli che formano la religione vera e propria e i loro collegamenti ai processi sociali, culturali e psicologici di un contesto culturale. La decostruzione è presente anche nel pensiero antropologico contemporaneo.
I testi Scrivere le Culture di Clifford & Marcus o Modernità in Polvere di Appadurai analizzano criticamente la presunta oggettività della descrizione antropologica tradizionale in cui l’oggetto antropologico diviene un effetto della scrittura dell’antropologo che può essere più o meno consapevolmente manipolato, ma che può divenire critica culturale della stessa società occidentale.
2 La decostruzione in azione: alle origini della filosofia religiosa africana
Philosophie bantoue é un’opera scritta nel 1945 da Placide Tempels, un missionario francescano che lavorò per molti anni in una missione del Congo. La riflessione dell’autore sulla religiosità dei Bantu lo porta alla conclusione che il loro pensiero religioso sia un vero sistema filosofico in quanto strutturato più su un pensiero metafisico che magico e superstizioso (LEGHISSA; TATIANA, 2005, p. 10). L’idea ontologica di “persona” viene espressa nel linguaggio Bantu con il termine “muntu” (POMBO, 2006, p. 106) che viene utilizzato in relazione a quelle situazioni di crisi che l’uomo esperisce durante la sua esistenza che vanno dalla vita alla morte e a tutte quelle situazioni oltre la morte.
Il tentativo di sistematizzare il pensiero ontologico Bantu attraverso le categorie filosofiche occidentali è un’operazione che ha segnato le speculazioni successive e che ha prodotto movimenti di resistenza culturale come l’Afrocentricity (BUSSOTTI, 2010, p. 131-167). Si tratta di una corrente filosofica contemporanea fondata da Molefe Keti Asante secondo la quale occorre ripensare l’uomo attraverso un nuovo paradigma filosofico afrocentrico in grado allo stesso tempo di rivendicare una propria diversità e di affermare l’universalità del proprio pensiero. In questo caso, però, Asante sfocia in una posizione quasi speculare a quella dell’etnocentrismo, esaltando non tanto la diversità e il relativismo, quanto la superiorità di un certo popolo o etnia, in questo caso gli africani e gli afro-americani (BUSSOTTI; NHAUELEQUE, 2018).
Una prospettiva differente d’indagine sulla filosofia africana è quella proposta da Ivan Bargna secondo cui “[...] la filosofia africana ha il suo luogo di nascita nel margine. Sorge nelle incerte zone di confine che separano e congiungono spazi socioculturali, politici, mentali e disciplinari diversi: dominio coloniale e lotte di liberazione, Africa e diaspora, saperi locali e linguaggi disciplinari occidentali.” (BARGNA, 2005, p. 2).
Non occorre però tralasciare, secondo Bargna, che “la filosofia africana”
[...] nasce quindi come discorso che si rivolge, allo stesso tempo, all’Africa e all’Occidente, come forma di reazione e resistenza e come tentativo di proporre a sé e agli altri un’immagine positiva di sé stessi in cui ci si possa riconoscere ed essere riconosciuti. Le due cose avvengono insieme perché per la filosofia africana il soggiornare nella differenza, nella distanza da sé, non è qualcosa di accidentale ma di costitutivo, non un difetto di origine ma una condizione di esistenza. (BARGNA, 2005, p. 2).
Secondo Mbiti la criticità nell’affrontare un concetto come quello di filosofia africana diventa evidente proprio nel momento stesso in cui viene impiegato nell’analisi delle società africane. Infatti, per il soggetto africano, “[...] l’intera esistenza è un fenomeno religioso: l’uomo è un essere profondamente religioso che vive in un universo religioso.” (MBITI, 1992, p.17). Quindi, la religione rimanda al problema ontologico dell’essere e dell’esistenza perché compenetra in modo pervasivo ogni aspetto della vita, tanto che diventa difficile operare una netta distinzione tra cosa sia religioso e no. Come sostiene Tshibangu (MBITI, 1992, p.17) la religione per l’uomo africano non è solo un insieme di credenze, ma interviene nella costruzione dell’identità e nello stabilire i valori morali sottesi ad ogni comunità sociale. La religione svolge perciò un compito fondamentale non solo nell’orientare moralmente la vita dei soggetti umani, ma soprattutto gioca un ruolo essenziale nel sostenere la stabilità sociale.
Nel contesto generale africano la religione tradizionale fonda le sue premesse teoriche sull’esistenza di una serie di esseri gerarchicamente ordinati che danno vita a una rappresentazione cosmogonica del mondo organizzata, dinamica e vitale.
Per Horton (HORTON , 1975) le rappresentazioni cosmologiche africane si fondano su una struttura nella quale si trovano due livelli: uno è quello degli spiriti inferiori, l’altro degli esseri superiori. Gli spiriti inferiori entrano nei processi relazionali che sono alla base del contesto locale della comunità sociale, mentre quando si parla degli esseri superiori si rimanda a tutti quei processi e relazioni che fanno riferimento al mondo nella sua interezza.
Non si tratta, però, di due livelli tra loro distanti e separati da un punto di vista metafisico, ma occorre vederli olisticamente dove il locale è inserito nel globale. Seguendo questa prospettiva gli spiriti inferiori possono essere interpretati come manifestazioni degli esseri superiori oppure come esseri il cui potere dipende da questi.
Anche Mulago (MULAGO, 1991) individua gli elementi peculiari della religione africana nella credenza dell’esistenza di due mondi, uno invisibile e uno visibile, che si incontrano e si compenetrano, e nella credenza in un Essere Superiore che è Padre e Creatore di tutto ciò che esiste. In una visione così siffatta, Dio viene posto al vertice di una struttura rappresentazionale piramidale gerarchicamente organizzata. In questa prospettiva a scalare, gli spiriti della natura e dei morti occupano le posizioni intermedie tra l’Essere Supremo e gli esseri umani in quanto il loro ruolo è quello di intermediari dell’uno verso gli altri.
Tutti gli esseri stanno in rapporto relazionale e gerarchico. Quindi, non esiste una distanza metafisica tra il mondo degli “esseri invisibili” e il mondo degli “esseri visibili” perchè appartengono entrambi ad uno stesso ciclo vitale che dà senso a tutto. L’universo spirituale e quello fisico sono in un rapporto di continuità.
Centrale in questa cosmologia è la posizione che l’uomo occupa nel mondo: posto al suo centro ne diventa la “chiave di intelligibilità”. Infatti, Mbiti (BENEDUCE, 2002, p. 15) parla di “[...] un’ontologia antropocentrica in cui tutto viene visto in relazione con l’uomo.” Per Kipoy Pombo (POMBO, 2009, p. 105-106) l’uomo africano è un “essere relazionale, sociale e comunitario” che fa esperienza di questa relazionalità in tre momenti che vanno dal rapporto con il curatore tradizionale per cercare di tener lontana la sfortuna, la relazione con gli esseri visibili e invisibili e la relazione con l’essere supremo che è “[...] il riferimento supremo di tutto ciò che avviene nel mondo, di tutto ciò che si svolge, e orienta il tutto verso un fine previsto che deve inevitabilmente arrivare”. Si tratta di momenti intersecati tra loro che danno vita al mondo. Il soggetto vive immerso in questa ragnatela di relazioni e toccare, come sostiene Tempels (TEMPELS, 2005), uno dei fili intessuti significa alterare l’intera esistenza. Infatti, l’uomo africano in quanto tale non si definisce solo nella sua singolarità ontologica ma soprattutto come appartenente a un nucleo familiare e a una comunità, perchè gli permettono di avere coscienza della propria esistenza. Quindi, come scrive Oosthuizen (OOSTHUIZEN, 1991, p. 41), “[...] l’uomo non esiste per la sua identità ma per il suo coinvolgimento relazionale e sociale”. Diventa allora fondamentale il mantenimento dell’equilibrio relazionale tra i diversi esseri che agiscono nel mondo tanto da poter parlare di un’unione simbiotica tra gli uomini con gli spiriti degli antenati e gli esseri spirituali. Si tratta di legami che vincolano il rapporto soprattutto tra gli spiriti dei morti con i loro parenti vivi. In questa visione cosmologica e ontologica il disegno ultimo che accompagna l’uomo non è quello di un possibile congiungimento metafisico con l’essere supremo, ma, una volta persa la sua umanità, può mutare in spirito, stato ultimo, questo, oltre il quale non è prevista alcuna evoluzione o involuzione.
In questo complesso panorama cosmologico, tema centrale è il rapporto indissociabile tra gli uomini con gli spiriti degli antenati. Infatti, attraverso la tradizione religiosa locale l’individuo africano non soltanto trova le risposte alle avversità che lo affliggono, alla crisi socio-economica e al disorientamento provocato dal cambiamento, ma anche la sua identità che si manifesta ontologicamente nella relazione vitale con gli spiriti dei morti, i defunti della famiglia e del lignaggio.
La vita di ogni individuo non termina con la morte fisica perchè il suo spirito si manifesta con una personalità e un potere riconosciuto dal gruppo sociale. Essendo nella gerarchia gli spiriti più importanti nella comunità, essi dirigono la vita dei loro discendenti indirizzando le loro scelte sociali e morali (HONWANA, 2002, p. 53). Occorre quindi evitare di entrare in contrasto con gli spiriti perchè potrebbero mutare nella loro missione e da protettori della casa e della famiglia potrebbero “attaccare” i propri discendenti, procurando loro diversi problemi.
L’analisi condotta da Ray (RAY, 2000, p. 102) riguardo al concetto di persona nel mondo africano lo porta ad affermare che essa si definisce in rapporto alla famiglia e al lignaggio a cui l’individuo appartiene. L’appartenere a una determinata famiglia è il dato fondamentale nella definizione della persona nel presente e nel futuro. Viene qui superata la visione occidentale della particolarità e dell’unità della dimensione soggettiva dell’individuo svincolata dalla società, per proporre un’immagine di uomo vincolato alla propria appartenenza familiare e comunitaria, riflettendo un rapporto fondamentale, dinamico e imprescindibile con le forze naturali e gli spiriti. L’uomo con la sua azione deve operare in modo tale da non alterare l’equilibrio armonioso tra i vivi e gli spiriti in quanto la “rottura” di questo legame può far si che il gesto di uno, in quanto appartenente ad una specifica famiglia che appartiene a un determinato gruppo sociale, possa provocare ripercussioni sulla famiglia stessa e la comunità. Le vite dei vivi e dei morti si intersecano: per i Manianga del Congo Occidentale (RAY, 2000, p. 103) l’uomo è costituito da tre elementi fondamentali che sono il corpo fisico, quello spirituale e l’anima. Dopo la morte fisica, mentre il corpo è soggetto alla decomposizione, l’anima e il corpo spirituale si uniscono per continuare a vivere e a manifestarsi nel sogno e nelle visioni.
Nella relazione individuo/antenato una parte della sua forza vitale rinasce in uno o più discendenti. Così anche nel Mozambico l’identità della persona si definisce nella relazione con la famiglia, la comunità e i morti. In questo rapporto le pratiche rituali sono fondamentali: per esempio attribuire il nome al nascituro è una forma per garantire una continuità tra i vivi e i morti (BUSSOTTI; GATTI; NHAUELEQUE, 2012, p. 24-29). Andrew Walsh (WALSH, 2002, p. 366-392) ha condotto una ricerca nella comunità Ambondromifehy nel nord del Madagascar. In questo contesto gli spiriti dei morti mantengono un legame con il mondo dei vivi. Nonostante il mutamento della loro condizione rimangono ancorati al luogo di sepoltura, ma sono soggetti a “sentire” i cambiamenti climatici all’interno delle grotte in cui sono stati sepolti. Se i parenti vivi disattendono alle disposizioni a cui sono tenuti, cioè prendersi cura di loro, gli spiriti si manifestano nei sogni o colpendoli attraverso malattie e disgrazie per richiamarli ai loro doveri rituali. Questo è il segnale che il parente deve portare conforto attraverso la pulizia e, quando è necessaria, la riparazione della bara o attraverso rituali con unguenti di grasso di mucca per favorire una migliore conservazione dei corpi degli antenati. Gli antenati, però, non sono solo causa di problemi. Infatti, se si preserva e si cura il loro luogo sacro, essi possono diventare una fonte di benedizione nella salute e nei progetti di vita dei loro parenti viventi.
In Mozambico, per esempio, gli agenti spirituali non devono essere visti solo come esseri esterni che controllano e mutano le identità delle persone, ma come l’essenza stessa dell’essere umano (HONWANA, 2002, p. 28).
Infatti, gli agenti spirituali vivono nella persona un’esistenza combinata anche se momentanea. In Possessão e Exorcismo em Moçambique, Polanah argomenta che gli spiriti, compresi quelli degli antenati, possono svolgere sia azioni benevoli che maligne. La risposta degli individui nei confronti dell’azione degli spiriti può essere di esorcismo, sottoponendosi a un rito in modo che l’essere lasci il loro corpo, o di adorcismo, affinché l’essere resti nella persona per difenderla e vivere in pace e armonia con costoro. È lo spirito che decide chi possedere, manifestandosi attraverso una serie di segni che vanno dall’esperienza onirica alla malattia o a eventi sfortunati. In questo modo lo spirito manifesta la sua presenza e a questo punto è l’individuo che deve decidere se accettare di essere il veicolo e il tramite tra il soggetto e la comunità. Per esempio, nei casi di chi diventa curandeiro, non è l’essere umano che sceglie di diventarlo, ma è lo spirito che decide chi possedere e con quale corpo “fare il suo lavoro” (POLANAH, 1968, p. 33). Per Beneduce “[...] la possessione è un fatto sociale per eccellenza, nel quale interagiscono dimensioni mondane e istanze sacre, conflitti attuali (individuali, interpersonali, sociali) o passati (familiari, di lignaggio, culturali).” (BENEDUCE, 2002, p. 84).
È attraverso la consultazione con il “curatore tradizionale” che si apre uno spazio di mediazione tra lui e il cliente, nel quale le identità individuali e collettive sono negoziate (JACKSON, 1978, p. 117-138) e il soggetto o ricrea la sua identità o ne stabilisce una nuova. Si può affermare quindi la presenza di identità multiple nella persona di più spiriti. Quando un individuo muore il suo corpo viene sepolto, ma il suo spirito rimane come manifestazione del suo potere, della sua personalità, ricoprendo un ruolo nella società. Questi spiriti influenzano la vita dei vivi in quanto continuano a orientare e controllare le vite dei loro discendenti in questa continuità vitale tra spiriti e vivi che devono seguire le loro direttive.
Il possesso degli spiriti non solo permette al soggetto di costruire relazioni umane e di stabilire rapporti, ma in alcuni casi in alcuni individui alla possessione degli spiriti si associa la funzione terapeutica (KARP I.; KARP P., 1979, p. 22-25).
Secondo Kipoy Pombo, l’uomo africano è un essere che trova la sua identità personale nella relazione, individuando tre dimensioni fondamentali che sono la prima con il mondo infra-umano, la seconda di tipo sociale e infine quella con l’aldilà (POMBO, 2009, p. 106).
Da un punto di vista ontologico viene superato il dualismo anima-corpo e quindi occorre parlare di persona intesa come una struttura ontologica di diversi elementi che lo determinano come un’individualità specifica. La dimensione corporea, invece, permette all’uomo di esperire il mondo esterno e forma un’entità dell’essere indivisibile, cioè l’Io. Anche da un punto di vista etico la libertà dell’uomo africano si realizza all’interno della comunità. Si tratta di una prospettiva che si oppone alla visione individualista del soggetto occidentale e che pone il proprio agire soggettivo come elemento libertario per eccellenza. L’agire individuale dell’uomo africano, invece, ha una ricaduta positiva o negativa sulla stessa comunità e il suo esistere è determinato dal seguire i valori sociali elaborati dalla società. Allontanarsi da questi principi o trascurare i propri doveri porta l’essere africano a non realizzarsi come persona fino a non esistere e a non essere (POMBO, 2009, p. 119). Possiamo quindi affermare che da un punto di vista antropologico e ontologico l’uomo africano è un essere in divenire composto da elementi materiali e immateriali, come l’incarnazione nel bambino di un antenato, e con un andamento circolare che si articola su questi momenti fondamentali: vita-morte-vita.
Il mistero dell’uomo nel pensiero filosofico africano, allora, rifugge dalle derive riduzionistiche dell’individualismo e del soggettivismo occidentale, vivendo una tendenza metafisica e soteriologica (PANNIKAR, 2000) che il pensiero occidentale ha totalmente omesso dal suo discorso.
Riflessioni conclusive
L’incontro e lo scontro con l’Occidente ha portato l’Africa a formulare un discorso filosofico e ad affrontare il tema dell’identità africana. Lo sguardo critico esterno prodotto dall’antropologia culturale con le sue svolte decostruzioniste ha permesso al pensiero filosofico africano di rispondere ai discorsi discriminatori che l’Occidente ha prodotto sull’Africa.
La filosofia africana nasce, quindi, come forma di reazione e resistenza al pensiero dominante occidentale, divenendo un sapere che va alla ricerca delle ricorrenze e delle differenze con le altre concezioni di pensiero in modo da produrre un’immagine positiva di se stessa.
L’interdipendenza secondo il paradigma familiare e clanico struttura ontologicamente la persona e il suo agire, quindi da un punto di vista filosofico l’identità di un individuo africano è una realtà dinamica che si realizza nel corso della sua vita sociale.
Partendo da queste premesse sistematiche diventa, quindi, complesso cercare di indagare l’essere attraverso le categorie filosofiche del mondo occidentale.
Volere sistematizzare il pensiero filosofico africano con le categorie occidentali cercando di “razionalizzarlo” è una forzatura epistemologica, forse si dovrebbe ripensare come fare filosofia, considerando l’aspetto costitutivo del pensiero umano che si caratterizza per essere interculturale, ibrido e meticcio.
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“Il termine indica la tendenza a considerare il proprio gruppo come il centro di ogni cosa e a giudicare le altre culture secondo schemi di riferimento derivati dal proprio contesto culturale, a loro volta considerati più appropriati e umanamente autentici rispetto ai costumi di altri gruppi.” (FABIETTI, U.; REMOTTI, F. (a cura), Dizionario di Antropologia, 1997). E’ l’idea che il “nostro gruppo” è sempre meglio degli “altri”, cioè la tendenza dei gruppi a costruire delle rappresentazioni del “noi” che sono sempre meglio degli “altri”.
Publication Dates
-
Publication in this collection
21 Feb 2022 -
Date of issue
2022
History
-
Received
15 Aug 2020 -
Accepted
22 Dec 2020