La differenza tra i concetti di saṃsāra e nirvāṇastabilita dal Buddha (VI-V sec. a.C.) nel suo primo sermone sembra essere messa in discussione dall'equiparazione dei due termini effettuata da Nāgārjuna (II sec. d.C.) in un passaggio-chiave delle sue MK. Questo articolo, in primo luogo, difende la tesi che la contraddizione sia soltanto apparente e che la relazione, di differenza o di identità, tra le due dimensioni dipende dal registro filosofico, rispettivamente epistemologico e ontologico, usato - in entrambi i casi per finalità soteriologiche - dal Buddha e da Nāgārjuna. In secondo luogo, cercheremo di provare che, in ogni caso, l'ontologia di Nāgārjuna, lungi dall'essere una novità filosofica o un'evoluzione rispetto al pensiero del fondatore del buddhismo è, al contrario, una delle possibili applicazioni della dottrina del non-sé (anātma-vāda) - probabilmente il contributo più importante e originale del pensiero buddhista alla storia della filosofia universale - esposta dal Buddha nel suo secondo sermone.
Buddha; Nāgārjuna; Saṃsāra; Nirvāṇa; Svabhāva; Anātma-vāda
The difference between the concepts of saṃsāra e nirvāṇaset forth by the historical Buddha (VI-V B.C.) in his first sermon seem to be disputed by the equalization of the two terms effected by Nāgārjuna (II A.D) in a topical passage of his MK. This article, firstly, supports the thesis that the contradiction is just a seeming one and that the relation of difference or identity between the two dimensions depends on the philosophical register, respectively epistemological and ontological, being used - in both cases for soteriological purposes - by the Buddha and Nāgārjuna. Secondly, we wish to prove that, in any case, Nāgārjuna's ontology, far from being a philosophical novelty or an evolution of the thought of the founder of Buddhism, is, on the contrary, one of the possible applications of the "non-self" doctrine (anātma-vāda) - probably the most important and original contribution of Buddhist thought to the history of world philosophy - expounded by the Buddha in his second sermon.
Buddha; Nāgārjuna; saṃsāra; nirvāṇa; svabhāva; anātma-vāda
Differenza epistemologica e identità ontologica tra Sa ṃ sāra e Nirvā ṇ a nel pensiero buddhista
Saṃsāra and nirvāṇa in Buddhist thought: epistemological difference and ontological identity
Giuseppe Ferraro
Doutorando em Filosofia pela Universidade Federal de Minas Gerais - UFMG - Docente de filosofia (ensino médio) na rede privada de Belo Horizonte. E_mail: giuseppeferraro2003@yahoo.com.br
RIASSUNTO
La differenza tra i concetti di saṃsāra e nirvāṇastabilita dal Buddha (VI-V sec. a.C.) nel suo primo sermone sembra essere messa in discussione dall'equiparazione dei due termini effettuata da Nāgārjuna (II sec. d.C.) in un passaggio-chiave delle sue MK. Questo articolo, in primo luogo, difende la tesi che la contraddizione sia soltanto apparente e che la relazione, di differenza o di identità, tra le due dimensioni dipende dal registro filosofico, rispettivamente epistemologico e ontologico, usato - in entrambi i casi per finalità soteriologiche - dal Buddha e da Nāgārjuna. In secondo luogo, cercheremo di provare che, in ogni caso, l'ontologia di Nāgārjuna, lungi dall'essere una novità filosofica o un'evoluzione rispetto al pensiero del fondatore del buddhismo è, al contrario, una delle possibili applicazioni della dottrina del non-sé (anātma-vāda) - probabilmente il contributo più importante e originale del pensiero buddhista alla storia della filosofia universale - esposta dal Buddha nel suo secondo sermone.
Parole-chiave: Buddha. Nāgārjuna. Saṃsāra. Nirvāṇa. Svabhāva. Anātma-vāda.
ABSTRACT
The difference between the concepts of saṃsāra e nirvāṇaset forth by the historical Buddha (VI-V B.C.) in his first sermon seem to be disputed by the equalization of the two terms effected by Nāgārjuna (II A.D) in a topical passage of his MK. This article, firstly, supports the thesis that the contradiction is just a seeming one and that the relation of difference or identity between the two dimensions depends on the philosophical register, respectively epistemological and ontological, being used - in both cases for soteriological purposes - by the Buddha and Nāgārjuna. Secondly, we wish to prove that, in any case, Nāgārjuna's ontology, far from being a philosophical novelty or an evolution of the thought of the founder of Buddhism, is, on the contrary, one of the possible applications of the "non-self" doctrine (anātma-vāda) - probably the most important and original contribution of Buddhist thought to the history of world philosophy - expounded by the Buddha in his second sermon.
Keywords: Buddha; Nāgārjuna; saṃsāra; nirvāṇa; svabhāva; anātma-vāda.
Durante un viaggio in barca, se ponete lo sguardo sulla riva, potreste cadere in errore e supporre che sia essa a muoversi. Tuttavia, se continuerete a guardare la barca, capirete che è essa che si muove in avanti. Allo stesso modo, se esaminate miriadi di cose con un'idea confusa del vostro corpo-mente, cadrete in errore e supporrete che la vostra mente e la vostra natura siano permanenti. Se, però, recuperate il significato concreto del viaggiare, vi apparirà evidente la ragione per la quale miriadi di cose sono prive del sé.
Dōgen - Shōbōgenzō ( XIII sec. d.C).
INTRODUZIONE
I versi 19 e 20 del capitolo XXV delle MK, al culmine di una serie di ragionamenti paradossali sviluppati da Nāgārjuna nel corso dei precedenti capitoli della stessa opera, affermano che:
Tra trasmigrazione (saṃsāra) e estinzione (nirvāṇa) non c'è la minima differenza; tra estinzione e trasmigrazione non c'è nulla di diverso. Quello che è il limite del nirvāṇa, quello stesso è anche il limite del saṃsāra. Tra loro non c'è nessuna differenza2.
Un'affermazione di questo genere, certamente in sintonia con il modo di pensare del movimento mahāyāna, mādhyamika e nagarjuniano in particolare, sembra però stonare con quella parte della tradizione filosofica buddhista (precedente a Nāgārjuna) costruita sulla netta differenziazione tra il saṃsāra3, cioè il piano ordinario dell'esistenza, fondamentalmente connotato dalla sofferenza, e il nirvāṇa4, estinzione della sofferenza e uscita dal ciclo samsarico.
Fu il Buddha storico - a partire dal suo primo discorso5, e poi in numerosi altri successivi - che distinse esplicitamente le due dimensioni, presentando (nella terza Nobile Verità) il nirvāṇacome il superamento del processo inesorabile che, meccanicamente (secondo quanto imposto dalle leggi del karma e della 'originazione dipendente'6), ci trasporta di incarnazione in incarnazione, imponendoci il continuo confronto con la sofferenza inerente alla stessa esistenza ordinaria.
È assolutamente da escludere che il Mahāyāna, la scuola Madhyamaka o Nāgārjuna abbiano la minima intenzione di contraddire il fondatore del buddhismo; al contrario, l'esplicito obiettivo filosofico degli stessi non è nient'altro che il tentativo di ampliare ed approfondire la comprensione della parola (e, potrebbe aggiugersi, dei silenzi7) del Buddha, con la chiara finalità soteriologica di condurre il maggior numero possibile di esseri alla liberazione, cioè, in altre parole, condurli fuori dal saṃsāra e dirigirli verso il nirvāṇa.
È necessario, pertanto, comprendere quale sia l'esatto significato dell'equazione saṃsāra = nirvāṇa(d'ora in poi 's = n') dei versi MK.25.19-20: in che modo possono essere conciliati i numerosi insegnamenti che, nel 'buddhismo di base'8, nettamente distinguono tra saṃsāra e nirvāṇa, e quelli che, principalmente nel buddhismo mahāyāna, e emblematicamente nel caso dei versi nagarjuniani qui in esame, equiparano le due dimensioni?
L'obiettivo di questo articolo è quello di proporre una soluzione a tale questione.
PROBLEMATICITÀ DELL'EQUIPARAZIONE SA ṂSĀRA - NIRVĀ ṆA
La difficoltà presentata dai versi MK.25.19-20 è, in primo luogo, una difficoltà di ordine logico. L'equazione s = n sembra un'aperta sfida ai principi della logica tradizionale: identità, contraddizione e terzo escluso. Dato che ognuno dei due termini - saṃsāra e nirvāṇa- è stato ampiamente identificato e definito dalla tradizione filosofica che precede Nāgārjuna, affermare che siano la stessa cosa contravviene alle regole "a = a' e 'a ≠ non-a". Dobbiamo, allora, concludere che il discorso di Nāgārjuna si colloca fuori dalle regole della logica tradizionale? E, se fosse così, che tipo di significato dovremmo attribuire a tale discorso?
La seconda difficoltà - percepita come più preoccupante e urgente dai suoi contemporanei, avversari e correligionari - è di ordine etico e soteriologico. L'identificazione, da parte del Buddha, della dimensione del nirvāṇacome soluzione dei mali del saṃsāra esige, per il suo ottenimento, il rispetto di una serie di precetti etici, precisamente definiti nella quarta Nobile Verità. Mettere in discussione la differenza tra saṃsāra e nirvāṇa(d'ora in avanti "s ≠ n") sembra togliere senso agli stessi principi etici del buddhismo: a che pro sforzarsi nel cammino, impegnarsi nella ricerca del retto comportamento, se, alla fine, il risultato dello sforzo coincide con lo stesso punto di partenza? Se saṃsāra e nirvāṇanon sono un punto di partenza e un punto di arrivo, ma sono lo stesso punto, perchè dovremmo muoverci?
In terzo luogo, anche risolvendo le due prime difficoltà, resterà da capire come si possa evitare la conclusione che il punto di vista di Nāgārjuna su saṃsāra e nirvāṇa, sebbene non in contraddizione (logica o soteriologica) con l'insegnamento del Buddha, sia, in qualche modo, molto differente, innovatore o rivoluzionario rispetto al punto di vista del Buddha.
1 IDENTITÀ E CONTRADDIZIONE NELLA FILOSOFIA MĀDHYAMIKA
Diversi studi recenti sono stati dedicati alla relazione tra "logica buddhista" (mādhyamika in particolare) e "logica occidentale". I passaggi delle MK apparentemente più lontani dalla possibilità di essere sottomessi ai principi di identità, contraddizione e terzo escluso - in particolare il caratteristco tetralemma9, per mezzo del quale Nāgārjuna smonta, riducendole all'assurdo, tutte le alternative logiche con le quali è possibile pensare un oggetto o un concetto - sono state oggetto di tentativi, da parte di diversi autori, di conciliazione con quei principi10. Una parte degli studiosi, pertanto, conclude che Nāgārjuna, almeno "intenzionalmente", non si oppone ai principi della logica tradizionale. Versi come MK.8.7 (cd)11 o 25.1412 mostrano, secondo S.Ruegg, che "[...] in his analysis and criticism of concepts and categories, Nāgārjuna's reasoning is clearly based on the principles of contradiction and exclusion."13
Ovviamente, una posizione di questo tipo deve dar conto della serie di affermazioni nagarjuniane - come, ad esempio, quella (s = n) qui esaminata - apparentemente più recalcitranti ad essere inquadrate nello schema dei pricipi della logica tradizionale. La difficoltà di operare tale "traduzione" della logica di Nāgārjuna nei termini della logica "occidentale", ha indotto altri studiosi a concludere che il rispetto della logica, da parte di Nāgārjuna è, eventualmente, soltanto programmatico e sporadico, e che egli in qualche caso, per semplice immaturità del livello di sviluppo della logica del suo tempo14 o forse "dolosamente", nel tentativo di colpire i propri avversari con mezzi sofistici15, non riesce o non vuole rispettarla.
D'altra parte, una differente linea interpretativa arriva alla conclusione che la filosofia mādhyamika (e prajñāpāramitā più in generale) non può essere ricondotta agli schemi logici tradizionali. Nonostante vi siano "[...] semblances of a consistent use of logic or a form of dialectic [...] we might conclude here by saying that Nāgārjuna is not a logician or a dialectician of the Western brand and that the Buddhist truth, if forthcoming at all, is not the result of logic or dialectic."16 "It is the nature of Mādhyamika trick not to argue, explain, command or demonstrate - all of which will be self-defeating - but rather to conjure."17 L'obiettivo delle MK sarebbe, dunque, soltanto quello di evocare un "intuitive insight", la visione che "[...] everything in the cosmos is intimately tied together" 18, secondo il principio "of coexisting counterparts."19
Non è questo il luogo per approfondire nessuno di questi aspetti del dibattito sull'uso della logica in Nāgārjuna; ma è importante percepire che l'equazione s = n in esame, evidentemente, deve essere interpretata in modo molto diverso se assumiamo l'una (Nāgārjuna rispetta, o ha intenzione di rispettare i pricipi della logica tradizionale) o l'altra (Nāgārjuna non rispetta le regole della logica tradizionale) delle possibili direzioni interpretative. Nel primo caso dobbiamo concludere che s = n possa, in qualche modo, essere ricondotta al principio di identità, che si tratti di qualche tipo di sofisma o, infine, che si tratti semplicemente di una fallacia logica da parte Nāgārjuna. Nel secondo caso, al contrario, possiamo pensare che Nāgārjuna non stia conversando con la "mente razionale" del suo lettore, ma intenda, attraverso un'aperta sfida ai principi della logica, produrre qualche tipo di "intuizione intellettuale" o di insight - a-logico - sulla natura della realtà20.
C'è, tuttavia, una terza possibilità, un cammino di mezzo, tra tali alternative: il cammino di dire che alcuni discorsi di Nāgārjuna devono essere collocati nella prospettiva della differenza tra saṃsāra e nirvāṇa- e, pertanto, che esiste qualcosa che possiamo chiamare "saṃsāra" e qualcos'altro che chiamiamo "nirvāṇa" -, mentre altri discorsi (in primo luogo i versi MK.25.19-20 qui in esame) affermano l'identità di queste due dimensioni, ossia la loro non esistenza come entità separate. L'idea del "cammino di mezzo" (madhyamā pratipat), che nella formulazione originaria del Buddha aveva un senso più ristretto21, arriva ad essere, nella scuola Madhyamaka, l'insegnamento di una posizione intermedia tra l'idea di esistenza (śāśvatavāda) e l'idea di non esistenza (ucchedavāda) di qualsiasi ente, saṃsāra e nirvāṇainclusi.
Estendendo la nostra analisi ai concetti connessi a quelli di saṃsāra e nirvāṇa- in primo luogo alle due dimensioni epistemologiche della "verità convenzionale" e della "verità ultima" (cf. nota 3) -, troviamo, all'interno della filosofia mādhyamika, passaggi che differenziano e passaggi che equiparano le due verità: Nāgārjuna, tipicamente nel verso MK.24.922, distingue la "verità convenzionale" e la "verità ultima", mentre il tardo mādhyamika Jñānagarbha (VIII sec. d.C), nelle sue Satyadvayavibhagakārikā ("Stanze sulla distinzione tra le due verità"), dopo averle scrupolosamente differenziate nei primi versi23, nel verso 17 afferma che le due sono la stessa cosa24. O ancora, in maniera anche più netta, le due nozioni di materia (rūpa)25 e vacuità (śūnyatā), da una parte differenziate come due dimensioni alternative26, nel Sutra del Cuore (uno dei pilastri della letteratura mahāyāna), sono dette identiche27.
Ammettendo, dunque, che la filosofia mahāyāna in qualche caso rispetta e qualche altro disattende i principi di identità e contraddizione, deve essere compreso a) in quali circostanze e b) per quali finalità filosofiche i pensatori mādhyamika scelgono di seguire o di non seguire le regole della logica tradizionale.
Riguardo alla prima questone, Bugault, in un articolo dedicato proprio all'esegesi del capitolo XXV delle MK, conclude che saṃsāra e nirvāṇadevono essere considerate dimensioni differenti sul piano epistemologico e identiche sul piano ontologico28.
Il nirvāṇa("verità ultima", śūnyatā) non è, così, una dimensione altra rispetto alla realtà nella quale l'individuo è ordinariamente immerso, ma piuttosto una realtà che si compone esattamente degli stessi eventi ontologici che si producono nella dimensione del saṃsāra ("verità convenzionale", rūpa). La differenza tra saṃsāra e nirvāṇaconsiste soltanto alla prospettiva con la quale si osserva la realtà. Come dice MK.25.9:
Quello stesso [saṃsāra, ossia] andare e venire del mondo, dipendente e condizionato da altro, è, [visto come] non dipendente e non condizionato, il nirvāṇa29.
La realizzazione del nirvāṇadeve essere così compresa come un cambiamento di prospettiva. Epistemologicamente, pertanto, la differenza esiste; per lo meno, esiste nella dimensione epistemologica ordinaria. È, dunque, perfettamente sensato, da parte del Buddha (e da parte di Nāgārjuna, in tutti quei casi in cui egli rispetta i principi della logica tradizionale) dire che il nirvāṇaé "altro" rispetto al saṃsāra.
I discorsi del Buddha che sostengono la differenza tra saṃsāra e nirvāṇae l'equazione s = n proposta da Nāgārjuna non sono, pertanto, fra loro contraddittori, nella misura in cui s ≠ n deve essere qualificata come una differenziazione cognitiva, mentre s = n è una identificazione ontologica. Con questo, la prima difficoltà presentata nella sezione introduttiva sembra risolversi.
La domanda b), sulle finalità filosofiche dell'impiego, nel pensiero buddhista, di una duplice logica (una per "fare epistemologia", l'altra per "fare metafisica"), ci porta a trovare anche la soluzione della seconda difficoltà individuata sopra, quella di capire in che modo una posizione come s = n non mette in pericolo e non compromette il cammino etico e gli obiettivi soteriologici dell'insegnamento originario del Buddha.
2. EPISTEMOLOGIA E ONTOLOGIA COME RISORSE PEDAGOGICHE
Un aspetto cruciale da considerare quando ci poniamo di fronte a disquisizioni filosofiche buddhiste è la circostanza che l'uso della logica e della ragione è sempre, almeno programmaticamente, subordinato ad obiettivi soteriologici. Sono vari i discorsi del Buddha30 che affermano chiaramente che la speculazione è utile solo se e in quanto essa (come "retta visione", cioè, uno degli otto momenti del "nobile cammino") contribuisca a produrre, come risultato, l'estinzione della sofferenza. In altre parole, tutti gli insegnamenti del Buddha e degli altri maestri della tradizione buddhista devono essere compresi come "espedienti salutari" (upāya kauśalya)31, risorse pedagogiche, funzionali alla finalità soteriologica della liberazione.
Pertanto, dobbiamo concludere che sia l'epistemologia (secondo la quale s ≠ n), che l'ontologia (secondo la quale s = n) buddhiste hanno di mira la stessa finalità di condurre gli adepti del cammino del Buddha fuori dal saṃsāra, verso il nirvāṇa. È il differente livello di evoluzione intellettiva e spirituale dei discepoli che giustifica ora insegnamenti (epistemologici) basati sull'identità e la differenza, ora insegnamenti (ontologici) basati sull'assenza di individualità e sulla non-differenza.
Il percorso soteriologico comincia, per tutti, nella dimensione convenzionale, basata sui principi dell'identità e della contraddizione: evidentemente, in questo contesto, i discorsi buddhisti devono essere costruiti secondo le regole della logica tradizionale e, dunque, s ≠ n. Tuttavia, in un secondo momento, dopo che il "tirocinio filosofico" iniziale ha prodotto32 un primo livello di maturazione intellettuale, l'insegnamento può iniziare a parlare il linguaggio della coincidentia oppositorum, secondo il quale s = n, o la verità convenzionale è uguale alla verità ultima. Un discorso, quest'ultimo, che deve condurre l'adepto buddhista un po' più avanti, fino al limite estremo delle capacità intellettive del pensiero logico-discorsivo. In seguito, a partire da questo punto, le ulteriori, eventuali possibilità di comprendere la realtà sono a carico di altre facoltà mentali.
È anche possibile, come osservato da Nagao, dopo il primo "movimento logico" - dall'affermazione della differenza verso la sua negazione -, individuare, nella filosofia di Nāgārjuna, un secondo movimento: dalla negazione della differenza, di nuovo alla sua affermazione. Questo doppio movimento, "ascendente" e "discendente", è definito dallo stesso studioso giapponese "zigzagging logic"33: la cifra più autentica, secondo Nagao, della stessa idea di cammino di mezzo34.
Insomma, l'equiparazione s = n proposta da Nāgārjuna, lungi dall'essere una sfida e una minaccia per il cammino evolutivo tracciato dal Buddha, è, in realtà, un insegnamento che si pone in perfetta continuità con quel cammino. Un insegnamento che utilizza, durante il suo svolgersi, una logica differente, raggiungendo così una conclusione che, apparentemente, contraddice la formula s ≠ n indicata inizialmente da Śākyamuni. Per raggiungere e istruire destinatari differenti - o anche gli stessi destinatari in momenti diversi del loro percorso filosofico-spirituale - la soteriologia buddhista si svolge in due tappe: la prima (esemplarmente rappresentata dal primo discorso del Buddha) semplicemente presenta la possibilità di un'uscita dalla sofferenza samsarica; la seconda (che nei versi nagarjuniani MK.25.19-20 raggiunge un momento topico) suggerisce come la stessa uscita consista soltanto in un cambiamento di prospettiva.
Ricorrendo alla tradizionale (pan-indiana) metafora della corda che, nell'oscurità, è scambiata per un serpente35, si può dire che, per "risvegliare" chi stia così equivocato (e, conseguentemente, confuso e spaventato), è pedagogicamente (o terapeuticamente36) opportuno, per prima cosa, soltanto dire che c'è una via d'uscita alla situazione attuale, un possibile superamento della presente condizione di terrore. Non è il caso di fornire, a chi si trovi in una condizione di confusione e di panico, indicazioni più dettagliate, che non sarebbero comprese o prese sul serio. In questo momento la semplice informazione - equivalente al discorso epistemologico del Buddha - che c'è una soluzione è quanto basta per produrre, nella mente di chi vede il serpente, la calma necessaria per recepire le istruzioni successive, vale a dire il discorso (ontologico) di Nāgārjuna: la soluzione non dipende dalla trasformazione di una realtà problematica in un'altra realtà, non problematica: il serpente non deve essere trasformato in una corda; il serpente già è, fin dall'inizio, una corda. Quello che sembra un serpente è, in realtà, una corda: il saṃsāra è il nirvāṇa.
3. ANĀTMAVĀDA E COINCIDENTIA OPPOSITORUM
Posto che tra l'epistemologia del Buddha e l'ontologia di Nāgārjuna non c'è contraddizione, ma, piuttosto, devono essere considerate complementari, resta il fatto (equivalente alla terza difficoltà presentata nell'introduzione) che si tratta di discorsi differenti; il secondo, in apparenza, filosoficamente più elevato del primo: l'insegnamento del Buddha, in effetti, sembrerebbe dirigirsi a un pubblico spiritualmente meno avanzato, nel cammino verso l'uscita dal saṃsāra, rispetto ai destinatari del discorso di Nāgārjuna.
Questo, in sé, potrebbe non apparire come una difficoltà. Si potrebbe dire, ad esempio, che il maggior spessore filosofico dell'insegnamento di Nāgārjuna si giustifica con la circostanza che, durante i cinque o sei secoli che separano il Buddha dal sorgere della scuola Madhyamaka, il livello della speculazione filosofica sia naturalmente cresciuto; o, ancora, si potrebbe argomentare che i due discorsi, epistemologico e ontologico, sebbene si dirigano a un pubblico rispettivamente meno o più evoluto, non sono però essi stessi (dal punto di vista filosofico) diversamente pregiati o importanti.
La questione, tuttavia, è che all'interno della storia del pensiero buddhista l'insegnamento del Buddha è percepito da tutti i suoi seguaci come perfettamente completo e definitivo; qualsiasi scuola buddhista, inclusa la scuola Madhyamaka, si pone come una spiegazione, un commento o, eventualmente, un adattamento pedagogico di quanto già detto dal Buddha. Tuttavia, nei termini in cui la questione è stata posta finora, il discorso ontologico di Nāgārjuna sembrerebbe qualcosa di nuovo e di irriducibile a quanto è stato insegnato dal Buddha. Pertanto Nāgārjuna non sarebbe, come indicato da alcuni37, un semplice commentatore o interprete del Buddha, bensì, al contrario, un pensatore originale e innovatore.
Per evitare questa conclusione dovrebbe essere possibile trovare, dentro l'insegnamento dello stesso Buddha, oltre all'esplicita differenziazione (epistemologica) tra saṃsāra e nirvāṇa, anche un'ontologia che, per lo meno implicitamente o embrionalmente, affermi che s = n.
Per scoprire eventuali radici, nel discorso originale del Buddha, di quanto diverrà, nei citati versi delle MK, l'equazione s = n, è il caso di esaminare in cosa consista, esattamente, l'errore di prospettiva che ci impone di vedere la realtà come saṃsāra e ci impedisce di vedere il nirvāṇa. Qual è il fondamentale equivoco epistemologico che ci confina nella percezione del serpente e ci impedisce di cogliere la realtà della corda?
Tra i molteplici punti dell'opera di Nāgārjuna in cui possiamo trovare elementi per rispondere a questa domanda, il capitolo XV delle MK, dedicato alla "investigazione" (parīk s ā) della "natura sostanziale" (svabhāva), è forse il più importante.
Il verso 6 di questo capitolo recita:
Quelli che vedono "natura propria" (svabhāva) e "natura altrui" (parabhāva), essere (bhāva) e non-essere (abhāva), non vedono la realtà (tattva) presente nella dottrina del Buddha38.
A nostro avviso la parola tattva39 ha un peso cruciale per una corretta esegesi della filosofia di Nāgārjuna. Un passaggio decisivo per l'intellezione di questo termine è MK18.9:
Indipendente, pacificata, non smembrata dalla proliferazione mentale, non discorsiva, senza differenziazione semantica: è questo il carattere della realtà (tattvasya)40.
Tattva è, pertanto, la realtà come essa è, oltre le nostre capacità concettuali e discorsive. Nāgārjuna la menziona solo in maniera sporadica, senza mai, coerentemente, darne alcuna caratterizzazione positiva41. Nella nota 3 di questo articolo abbiamo postulato che tattva sia un equivalente concettuale di nirvāṇa.
Tornando al verso MK.15.6, è detto che il tattva - il vero modo di essere delle cose, il punto di arrivo del cammino proposto dal Buddha - non è percepito da quelli che concepiscono le cose come detentrici di "natura intrinseca" (svabhāva) e di "natura estrinseca" (parabhāva), vale a dire, "esistenza" e "non-esistenza".
Il concetto di svabhāva è tra i più controversi e ardui da tradurre dell'intera filosofia mādhyamika42. Nondimeno sufficienti evidenze testuali ci permettono di concordare con Westerhoff43, secondo il quale il significato assolutamente prevalente di svabhāva in Nāgārjuna è quello di "autonomia ontologica", "capacità di esistere indipendentemente da altro" o infine, ricorrendo a un termine classico della metafisica occidentale, di "sostanza". Letteralmente, la parola svabhāva significa "esistenza propria" o "esistenza che dipende da sé". In contrasto con parabhāva, come è nel caso del verso MK.15.6 citato44, il senso può essere considerato quello di "natura propria" in opposizione a "natura altrui"45, ossia, la natura di "essere ciò che si è" contro la natura di "essere altro da ciò che si è"; in altre parole, la propria identità sostanziale in opposizione a ciò che è differente da sé. Bhāva e abhāva, le due parole che, nello stesso verso, seguono svabhāva e parabhāva, sono apposizioni di queste ultime e significano, semplicemente, "essere" (o "ente") e "non-essere" (o "non-ente"). Ogni cosa, nella percezione ordinaria, è vista come "ciò che è" qualche tipo di ente o di sostanza e "ciò che non-è" tutto quello che è percepito come "altro". Ora, è proprio questa percezione della cose come "essere qualcosa" e "non essere altro", cioè come identità sostanziale e differenza, che non permette, come dice il verso MK.15.6, di fare esperienza del tattva "presente nella dottrina del Buddha."
Il principale obiettivo filosofico dell'intera opera di Nāgārjuna è, si potrebbe dire, la dimostrazione che il nostro modo "sostanzialista" (e più in generale "categorialista") di interpretare la realtà, ossia la tendenza a individuare svabhāvā come causa e sostrato delle nostre percezioni, è il fondamentale errore epistemologico che ci impedisce di vedere le cose come esse sono.
Candrakīrti, commentando il verso introduttivo delle MK, afferma che il primo capitolo fu scritto (da Nāgārjuna) in "[...] opposizione alla sovrimposizione (adhyāropa) della falsa natura propria (svarūpa)"46, mentre i "[...] restanti capitoli furono composti con l'obiettivo di eliminare qualsiasi distinzione (viśe s a) che fosse sovrimposta in qualsiasi contesto."47 Pertanto la finalità dei 27 capitoli delle MK (e di grande parte dell'opera di Nāgārjuna) è quella di dimostrare (fondamentalmente per mezzo di paradossi e reductiones ad absurdum) l'insostenibilità e l'assurdo delle categorie - in primo luogo la categoria della "sostanza" - delle quali la nostra dimensione cognitiva è colma: categorie che, continuamente, proiettiamo e sovrimponiamo alla realtà, al tattva, in sé vuoto di tali categorie48.
Nessuna "cosa", in questo modo, esiste in sé, sostanzialmente. Ogni ente non è altro che una "costruzione mentale" (prajñapti sat) realizzata in congiunzione e in opposizione ad altri concetti correlativi. Nel flusso del tattva, noi operiamo continuamente ritagli, individuiamo e connettiamo "porzioni", ognuna definita dalla giustapposizione alle altre. Si tratta di una vera e propria "operazione metafisica", che ogni individuo realizza continuamente e incoscientemente. Bugault spiega: "Monsieur Tout-le-monde est un metaphysician qui s´ignore, praticant à son insu cette métaphysique de la vie quotidienne."49 La proposta filosofica mādhyamika è quella, in primo luogo, di "decostruire"50 il prisma metafisico attraverso il quale osserviamo la realtà, esperendola come saṃsāra.
Ora, il fondamento metafisico che proiettiamo sull'essere, il primo atto della reificazione di una realtà che, in ultima analisi, è priva di qualsiasi sostanzialità, è la concezione del nostro proprio "sé" o "ego". Ancora una volta ricorriamo alle parole di Bugault: "On ne peut avoir la perception d´un changement ou d´un flux que par référence à un point supposé fixe. Le fleuve s´écoule aux yeux d´un observateur posté sur la rive [...]. Dans notre vie, le point supposé fixe est l´ego, ce nous-même constitué comme centre de perspectives et comme observatoire autour duquel toutes choses sont censées se mouvoir."51 È a partire dall'iniziale, errata operazione epistemologica di supporre la presenza di un "soggetto" - sostrato o contenitore della nostra esperienza interna - che avvengono, subito dopo, tutte le successive "operazioni metafisiche". Si può dire, pertanto, che il saṃsāra inizia nello stesso momento in cui iniziamo a concepirci come ego, sostanze individuali separate: tutte le altre individuazioni (che ci impediscono la visione della "[...] realtà presente nella dottrina del Buddha") sono operate sulla base di esigenze egoiche.
A questo punto torniamo alla questione iniziale di questa sezione: è possibile dire che la concezione esposta fino a qui sia, in qualche modo, già presente nella parola del Buddha? Possiamo considerare le conclusioni anti-metafisiche di Nāgārjuna come già contenute, per lo meno embrionalmente, negli insegnamenti originari del Buddha?
La risposta a queste domande sembra, ora, indiscutibilmente positiva. Già in quello che è tradizionalmente considerato il suo secondo sermone, vale a dire il "Discorso sopra i contrassegni del non-sé"52, il Buddha espone la sua fondamentale "dottrina del non-sé" (anātmavāda): analizzando ognuno dei cinque "aggregati" (skandha)53 ai quali il complesso psico-fisico umano può essere integralmente ridotto, il Buddha conclude che nessuno di essi è identificabile come il sé. Alla sensazione di "essere un sé", dunque, non corrisponde alcuna entità empiricamente riconoscibile: l'ego è solamente una costruzione mentale, un ente concettuale (prajñapti sat), non un ente reale (dravya sat).
Mettere in discussione la nostra "sensazione egoica", la nostra convinzione di essere una sostanza individuale, significa mettere in discussione tutto quello che consegue a tale convinzione, cioé l'intero processo epistemologico della reificazione del reale. La stessa credenza nella differenza tra saṃsāra e nirvāṇa(nonostante sia utile nei primi momenti del cammino buddhista), tipico esempio di sostanzializzazione, dipende dalla credenza nell'"anima" individuale. Eliminando l'idea di ego, appare la realtà e sparisce la visione di altre sostanze e categorie: "Those who do not see reality believe in saṃsāra and nirvāṇa, [but] those who see reality believe in neither."54
L'equazione s = n presentata da Nāgārjuna, pertanto, è implicitamente contenuta nella dottrina anātma del Buddha storico. Anche la terza difficoltà sopra indicata è così risolta: l'equiparazione tra saṃsāra e nirvāṇanon è un punto di vista nuovo, differente e filosoficamente più elevato rispetto a quanto il Buddha aveva proposto, bensì una semplice conseguenza e una applicazione della "dottrina del non-sé" esposta dallo stesso Buddha.
È importante, nell'economia del discorso sviluppato fino ad ora, sottolineare come l'Anattalakkha na Sutta sia il secondo discorso del Buddha. La circostanza che Śākyamuni scelga, nel suo primo sermone, di differenziare saṃsāra e nirvāṇae, nel secondo, dire quello che anticipa e implica la loro equivalenza, è in piena sintonia con il movimento - dall'affermazione della differenza alla sua negazione - precedentemente individuato.
CONCLUSIONE
Alla luce delle considerazioni svolte finora, le apparenti contraddizioni tra il contenuto dei versi MK.25.19-20 e i discorsi del Buddha che differenziano il saṃsāra dal nirvāṇaspariscono: l'equazione s = n proposta da Nāgārjuna non è altro che una delle possibili conseguenze e applicazioni di quanto detto dal Buddha nell' Anattalakkha n asutta. La non esistenza dell'ego indicata dal Buddha nel suo secondo sermone contiene implicitamente la non esistenza delle identificazioni e differenziazioni che lo stesso ego, a partire dai suoi limiti e dalle sue esigenze, sovrimpone a una realtà che, in sé, manca dei referenti delle nostre costruizioni metafisiche.
La critica e la confutazione - dirette a destinatari che già hanno raggiunto, attraverso gli insegnamenti del Buddha basati sulla "verità convenzionale", un certo livello di sviluppo spirituale - della nostra visione ordinaria, sostanzialista e categorialista, non ha l'obiettivo di offrire una descrizione (impossibile, nonostante gli innumerevoli tentativi55) della "verità ultima". L'unica finalità degli insegnamenti anti-sostanzialisti del Buddha e di Nāgārjuna è quella di "svuotare" e distruggere tutti i "punti di vista" (drsti) - inclusa la propria, eventuale interpretazione sostanzialista del concetto di vacuità - basati sulla credenza nella "natura propria" degli eventi56.
Il lavoro filosofico di "demolizione" del castello metafisico da noi stessi costruito e proiettato sulla realtà può concentrarsi in qualsiasi parte della sua struttura: sferrando il proprio attacco direttamente alle fondamenta della costruzione, vale a dire alla credenza nel sé, il Buddha mette in discussione l'intera visione sostanzialista che sostiene e prolifera sopra tale credenza. Nonostante le fondamenta siano il punto più decisivo da far crollare, esse sono anche il punto più resistente. Per questo è ragionevole e giustificato attaccare, nello stesso tempo, altre parti dell'edificio: i 27 capitoli delle MK corrispondono ad altrettanti punti della costruzione metafisica (ordinaria o filosoficamente elaborata che sia) che Nāgārjuna ha scelto di colpire. Tra essi, la concezione sostanzialista del nirvāṇa- come un piano ontologico altro rispetto a quello al quale appartiene la nostra esperienza attuale - è certamente, per chi voglia avanzare in direzione della retta visione della realtà, un punto di vista cruciale da abolire.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
FONTI PRIMARIE:
LETTERATURA SECONDARIA:
Recebido em: 07.02.2011
Aprovado em: 05.10.2011
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