SOMMARIO
La scuola, anche dal punto di vista architettonico e dell’arredo scolastico, è senza dubbio un prodotto culturale tipico di ogni epoca storica. Durante il fascismo, essa ha svolto il compito di formare il cittadino-soldato, amante della patria e obbediente ai voleri del duce. Servendosi in maniera massiccia dell’arte e della bellezza, la scuola ha assunto un compito centrale nello Stato fascista, venendo incaricata della trasmissione di un’identità nazionale basata sul culto di coloro che erano morti per la costruzione dell’Italia unita. L’arte, in tutte le sue forme, ma specialmente quelle architettoniche e plastiche, è stata per questo abilmente utilizzata nel ventennio fascista come strumento di trasmissione di una pedagogia della morte e della guerra, considerata come imprescindibile per l’“italiano nuovo”. Il saggio indaga i meccanismi con cui l’estetica totalitaria fascista è stata applicata nelle scuole di Torino negli anni del primo dopoguerra, ricoprendo una parte imprescindibile - seppur insospettabile per molti - nella costruzione del consenso.
Parole chiave: Pedagogia; Estetica totalitaria; Fascismo; Prima Guerra Mondiale; Architettura scolastica
RESUMO
A escola, também do ponto de vista arquitetônico e do seu mobiliário é, sem dúvida, um produto cultural típico de cada período histórico específico. Durante o fascismo, teve como tarefa preparar o cidadão-soldado, amante do seu país e obediente aos desejos do “duce”. Usando maciçamente a arte e a noções de beleza, a escola assumiu um papel central no Estado fascista, sendo encarregada da transmissão de uma identidade nacional baseada no culto daqueles que morreram pela construção da Itália unida. A arte, em todas as suas formas, mas especialmente a arquitetura e as artes plásticas, foi inteligentemente usada nos vinte anos de duração do fascismo como ferramenta para a transmissão de uma pedagogia da morte e da guerra, considerada essencial para o “novo italiano”. O artigo investiga os mecanismos com os quais a estética fascista totalitária foi aplicada nas escolas de Turim nos anos do primeiro pós-guerra, cobrindo uma parte inevitável - embora insuspeitada para muitos - na construção do consenso nacional.
Palavras-chave: Pedagogia; Estética totalitária; Fascismo; Primeira Guerra Mundial; Arquitetura escolar
ABSTRACT
The school, also from the architectural and the furniture point of view, is undoubtedly a cultural product typical of every historical period. During Fascism, the school carried out the task of training the citizen-soldier, lover of the country and obedient to the wishes of the “duce”. Using massively the art and the beauty, the school has assumed a central role in the fascist State, being charged with the transmission of a national identity based on the cult of those who had died for the construction of the united Italy. Art, in all its forms, but especially the architectural and plastic ones, has been cleverly used in the twenty years of fascism as a tool for the transmission of a pedagogy of death and war, considered essential for the “new Italian”. The essay investigates the mechanisms with which the totalitarian fascist aesthetic has been applied in the schools of Turin in the years of the first post-war period, covering an unavoidable part - albeit unsuspected for many - in building the consensus.
Keywords: Pedagogy; Totalitarian aesthetics; Fascism; World War I; Scholastic architecture
L’edificio scolastico come prodotto storico
Così come i concetti di istruzione e di educazione, anche la scuola intesa come edificio è un prodotto storico. È sotto gli occhi di tutti che le tecniche di costruzione, gli arredi, la collocazione sul territorio di una scuola sono elementi determinati dal momento storico nel quale essa viene costruita. Dunque, ogni momento storico ha le sue specificità e punta l’attenzione su determinati aspetti.
Oggi, per esempio, il requisito fondamentale a cui deve rispondere una scuola è quello della sicurezza, termine assurto negli ultimi anni a parola d’ordine di un momento storico che percepisce se stesso come caratterizzato dall’insicurezza. Per questo, il primo requisito che deve possedere un istituto scolastico è quello di “essere a norma”, come si dice tecnicamente, mentre il fatto che sia accogliente, funzionale alla didattica o ancora gradevole d’aspetto passa in secondo piano, quando non viene del tutto dimenticato.
In buona parte dell’Occidente, l’edilizia scolastica è da qualche tempo sotto i riflettori della stampa a causa dell’importanza che essa riveste per la sicurezza dei bambini e dei ragazzi che frequentano quotidianamente le scuole. Alcuni episodi drammatici hanno collocato la scuola, intesa come edificio nel quale trascorrono buona parte delle loro giornate le giovani generazioni del Paese, al centro del dibattito politico, nonché delle maggiori preoccupazioni dei genitori e dell’opinione pubblica in generale.
Proprio quello della sicurezza è, infatti, un tema che ha assunto una centralità sino ad oggi sconosciuta, venendo declinata in moltissimi ambiti della vita pubblica e privata, dalla sicurezza fisica e psicologica alla sicurezza dell’impiego, sino alla sicurezza in auto e nei trasporti. Inoltre, dato il rilievo che la sicurezza ha nella nostra civiltà, viene comunemente associata a un altro tema caratteristico della post-modernità, ovvero l’emergenza.
Queste problematiche culturali tipiche del nostro tempo fanno sì che spesso si guardi all’edilizia scolastica esclusivamente attraverso la lente della situazione attuale e soprattutto dell’urgenza. Si tratta di una lente che rischia di risultare deformante o perlomeno di trascurare molti altri aspetti ai quali gli edifici scolastici dovrebbero ottemperare, dal suo valore estetico alla qualità dell’insegnamento che viene erogato al suo interno, dal benessere psicologico di docenti e alunni all’impatto ambientale.
Dando per scontato che la sicurezza di alunni e docenti è un requisito importantissimo, la scelta delle priorità attuali nella valutazione della qualità di un edificio scolastico non è di secondaria importanza, soprattutto se si tiene conto che, in paesi come l’Italia, molte scuole hanno secoli di storia e che, in tutto il mondo, la didattica sta conoscendo trasformazioni epocali a causa della digitalizzazione.
Il confronto con il passato può contribuire a mettere in luce la posta in gioco, proprio perché permette di verificare la relazione che la progettazione e la manutenzione degli edifici scolastici hanno con il contesto storico. In altre epoche, infatti, l’edilizia scolastica ha contribuito in maniera decisiva alla creazione di un’identità nazionale e alla diffusione di ideali nazionalistici.1 In quei momenti, l’impianto architettonico ed estetico delle scuole era soprattutto concepito come veicolo di diffusione di ideologie. Era, cioè, uno strumento di propaganda, al pari dei programmi scolastici, dei manuali e delle leggi che regolavano la scuola. Un valido esempio è offerto dalla politica scolastica che il fascismo attuò in Italia nei primi anni del suo governo, specialmente in relazione a una tragedia di livello planetario quale fu la Prima Guerra Mondiale, i cui effetti disastrosi sull’economia e sulla tenuta sociale del Paese spianarono di fatto la strada al totalitarismo.
Gli ambiti dell’analisi storiografica applicata all’edilizia scolastica
Per valutare appieno il modo in cuiun determinato momento storico ha inteso la scuola come edificio può essere d’aiuto analizzare l’edilizia scolastica sotto tre differenti punti di vista, in relazione ai diversi ambiti nei quali la cultura e la politica del tempo hanno concepito e realizzato scuole, classi, arredi scolastici dal punto di vista sia architettonico che estetico:
- La scuola come luogo. Gli edifici scolastici sono stati oggetto di attenzione crescente nel corso del tempo. Già gli ordini religiosi che dal Cinquecento hanno gestito scuole e collegi, e in particolare i gesuiti, avevano definito canoni architettonici peculiari all’edilizia scolastica. In seguito, è stato compito precipuo degli Stati normare la vita scolastica, a partire dall’architettura. In particolare, lo Stato italiano ha dedicato sin dall’unità costante attenzione all’architettura scolastica, tanto che le leggi e le normative sulla scuola sono state numerose e sempre più dettagliate (anche se non sempre attese nella pratica). Più recentemente, poi, a partire dai primi del Novecento, anche pedagogisti, architetti, medici e filantropi si sono interessati alla costruzione degli edifici destinati all’istruzione, con l’obiettivo di apportare innovazioni e miglioramenti nella vita di insegnanti e studenti.
- La scuola come spazio. Con il tempo, le leggi e ancor più la riflessione pedagogica e architettonica sono entrate più in profondità nella vita scolastica, dedicandosi anche all’arredamento scolastico. È fuori di dubbio, infatti, che non solo la disposizione degli spazi, ma anche la disponibilità e l’organizzazione dell’attrezzatura rivolta all’insegnamento connotano indelebilmente la scuola. Si pensi alla lavagna, che comparve nelle aule alla fine del Settecento, introducendo nella vita scolastica le modalità didattiche che oggi consideriamo scontate, ma che prima non esistevano, come il fare lezione contemporaneamente a tutta la classe e prevedere, di conseguenza, manuali scolastici uguali per tutti gli alunni. Sin dalla fine dell’Ottocento esiste un ricco e specializzato mercato dell’arredo scolastico, per lungo tempo controllato, non a caso, dalle case editrici, che producevano non solo libri, ma anche banchi, cartelloni murali, cartine geografiche, strumenti per i laboratori, attrezzi per la ginnastica, ecc. Da sempre, seppur con livelli di complessità assai diversi, gli edifici, gli arredi e gli strumenti didattici, nonché la stessa organizzazione delle aule, sono chiamati a modificarsi in relazione alle innovazioni della tecnologia e delle teorie pedagogiche.
- La scuola come ambiente. In quanto prodotto tipico di ogni epoca storica, il modo di intendere la scuola e l’insegnamento cambia in relazione non solo all’architettura, all’arredamento scolastico o alle teorie didattiche e pedagogiche, ma soprattutto in funzione dei complessivi orizzonti culturali nei quali essa esiste. È figlia, cioè, del progresso tecnologico, delle aspettative della società nei confronti delle generazioni più giovani, dell’idea di uomo e di cittadino condivise dal contesto socio-culturale di riferimento. È necessario, quindi, studiare la scuola come un ecosistema, ovvero come un sistema che vive in equilibrio dinamico - quindi perennemente instabile e soggetto a trasformazioni - con l’ambiente che lo circonda, e dove interagiscono organismi viventi (studenti e insegnanti) e materia non vivente (locali, arredo, libri, strumenti info-telematici, ecc.), in continuo divenire.
Gli effetti della Prima Guerra Mondiale sulla società e sulla scuola
Prima di analizzare nel dettaglio la politica che il fascismo attuò sulla scuola è utile tracciare il contesto nel quale essa si inserì, concentrandoci in particolare sul rapporto tra gli effetti che ebbe la Grande Guerra sulla società e l’economia italiana e la salita al potere di Mussolini.
La Prima Guerra Mondiale segnò una svolta epocale sotto molti punti di vista: la leva di massa, con la mobilitazione generale, insieme con le spese militari, il razionamento dei generi alimentari, l’inasprimento del controllo governativo sulla circolazione delle idee e l’altissimo numero di vittime tra soldati e civili (oltre 600.000),portarono concretamente il conflitto in tutte le case degli italiani e determinarono il fenomeno della mobilitazione totale del paese. Anche per i Paesi usciti vittoriosi dalla guerra, come l’Italia, il dopoguerra fu particolarmente problematico, sia per i conflitti sociali che si vennero a creare sia per la difficoltà di riconvertire la produzione di guerra, provocando una gravissima crisi economica. Alle rivendicazioni del movimento operaio (che assunsero ampiezza e radicalità inedite), si sommarono le proteste degli ex combattenti e delle donne (subentrate agli uomini in campo produttivo), nonché la nascita di nuove formazioni politiche.
In Italia, le tensioni socio-economiche e la diffusione di un nazionalismo liberticida che prometteva il superamento delle tensioni stesse e delle loro cause profonde determinarono la fine dello Stato liberale e portarono alla nascita del fascismo. Affermatosi e salito al potere grazie alla violenza nell’ottobre del 1922, in breve tempo il partito di Benito Mussolini accentuò ulteriormente la sua vocazione alla dittatura e alla prevaricazione dei diritti politici e civili, trasformandosi in regime in seguito all’omicidio di Giacomo Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924.
Mentre smantellava uno a uno i pilastri su cui poggiava la vita democratica italiana (scioglimento dei partiti d’opposizione, introduzione della censura, modifica dello Statuto in senso autoritario, repressione violenta di ogni forma di dissenso), il fascismo si preoccupò anche di definire i principi ideologici e materiali su cui si fondava l’ideale dell’“italiano nuovo”. A tal fine, appena salito al potere, il fascismo fu chiamato a fare i conti con l’ingombrante retaggio di due momenti fondativi della giovane nazione italiana: il Risorgimento e la Grande Guerra. Come ha spiegato Emilio Gentile, infatti, tale confronto era inevitabile per un partito, poi trasformatosi in regime, che si proponeva come una “religione politica” e perseguiva l’obiettivo di “rifare gli italiani” per mezzo di un progetto di “rivoluzione antropologica” (GENTILE, 2001, 2005).
Proprio tale rinascita, che poggiava su un processo di sacralizzazione della politica, era basata su nuove credenze e principi che inneggiavano alla mistica comunitaria e alla rigenerazione morale. Il mito della rivoluzione politica come strumento di rinnovamento etico del Paese divenne centrale nel fascismo, che lo slegò dall’idea di uguaglianza e di libertà per innestarlo, invece, nel nuovo modello dello Stato totalitario. Per un certo verso si può affermare con Mario Isnenghi che “nella storia dell’Italia unitaria, lungo il corso del Novecento, la Grande Guerra abbia surrogato il Risorgimento come luogo di incontro e di continua rielaborazione, per i colti e gli incolti, delle ragioni e dei modi dello stare, o non stare, insieme in una ‘comunità immaginata’ chiamata Italia” (ISNENGHI, 1979).2
Nel progetto di costruzione del “nuovo italiano” la scuola ricoprì da subito un ruolo fondamentale, data la sua capacità di formare le tenere menti della gioventù e di penetrare in tutti gli strati sociali, sebbene la piaga dell’analfabetismo sia rimasta irrisolta per tutto il ventennio fascista. Non a caso, essa fu oggetto di una delle leggi più rappresentative dell’intero Ventennio, la cosiddetta “Legge Gentile”, concepita e promossa nel 1923 dal noto filosofo neo-idealista Giovanni Gentile, all’epoca ministro dell’Educazione Nazionale nel primo governo Mussolini. Si trattò di un progetto organico di riorganizzazione del sistema scolastico, che avrebbe innervato l’impostazione della scuola italiana ben oltre la fine del regime, in quanto pensata quando ancora il fascismo non si era trasformato in dittatura.3
Uno degli obiettivi prioritari della legge era proprio quello di completare l’opera risorgimentale, unificando gli italiani così come le Guerre d’Indipendenza avevano unificato l’Italia. A tal fine era fondamentale, secondo Gentile, investire particolari cure nell’istruzione delle élites, a cui la legge riservava un percorso specifico, il liceo classico, destinato a formare grandi uomini e grandi cittadini per mezzo dello studio approfondito delle lingue e delle letterature classiche, oltre che della filosofia. Si trattava, dunque, di una legge con una solida base classista, a cui il fascismo provò a porre rimedio dopo il 1924 per mezzo di una nutrita serie di interventi - l’introduzione del libro unico di Stato, l’inquadramento della gioventù nelle organizzazioni del partito, la modifica in senso fascista dei programmi e della formazione dei docenti - che, per altro, non intaccarono minimamente l’impostazione della legge ideata dal noto filosofo.
Dal punto di vista della normativa sull’edilizia scolastica, invece, il fascismo non sembra avere avuto grande interesse e neppure un impatto significativo. Infatti, non si registrano leggi rilevanti in materia, eccezion fatta per il regio decreto del 4 maggio 1925, in cui venivano stabiliti i requisiti da soddisfare nella costruzione dei nuovi edifici scolastici, per altro non troppo differenti da quelli prescritti in età liberale. La differenza, come vedremo, l’avrebbero fatta i progetti edilizi veri e propri, dalla forma degli edifici allo stile architettonico, dal corredo di lapidi, statue e fregi sino all’arredo scolastico, tutti ispirati a uno stile inequivocabilmente fascista.
Ben più importante in questo senso fu il decreto del 31 dicembre 1923 il quale, senza entrare nelle questioni tecniche, si proponeva di risolvere almeno in parte il problema della carenza endemica di aule in Italia, stanziando un milione di lire per i successivi dieci anni per la costruzione di nuove scuole.4
La scuola fascista come luogo: gli edifici scolastici come simbolo della rivoluzione fascista e della nascita del “nuovo italiano”
La città di Torino, e più in generale il Regno di Sardegna, aveva avviato un’intensa campagna a favore dell’alfabetizzazione popolare già prima dell’Unità d’Italia, tanto che, nel 1861, era una delle zone del Paese con il più alto numero di persone istruite. Dai decenni immediatamente successivi all’unificazione il Comune aveva poi dato il via alla sperimentazione di soluzioni architettoniche nuove e originali per dotarsi di edifici propri, invece di quelli affittati sino ad allora, e accogliere al meglio studenti e docenti. Per qualche tempo, il dibattito si concentrò sulla scelta tra scuole di piccole dimensioni diffuse sul territorio, sul modello inglese, che sembravano permettere una migliore efficacia educativa, oppure grandi edifici in cui concentrare un numero consistente di studenti. In breve, la scelta ricadde su questo secondo modello, che connotò l'edilizia scolastica torinese fino alla prima metà del Novecento, dotando la città di imponenti edifici dall’aspetto austero e regolare, capaci di ospitare sino a 1000 studenti.
A Torino, la costruzione di nuove scuole in epoca fascista si innestò proprio sulle soluzioni tecniche sperimentate negli anni dello Stato liberale: in generale, gli edifici fascisti ospitano da 10 a 30 aule, una o due palestre con relativi spogliatoi e, dove possibile, piscina coperta e scoperta. Spesso, poi, contemplano una sala medica, la biblioteca, sale per la direzione, per la segreteria, per gli insegnanti, l’alloggio per il custode, aule per insegnamenti speciali quali disegno ed economia domestica.
Tra il 1923 e il 1933 - per far fronte a una popolazione che passa da 495.025 a 696.166 abitanti - furono realizzate dal comune dieci nuove scuole e sedici preesistenti vennero ampliate e ammodernate, con una spesa complessiva da parte del Comune di oltre 42 milioni di lire (OTTINO, 1951, pp. 89-92). Del resto, Torino, che si era da poco trasformata in una città industriale, soprattutto grazie alle fabbriche di automobili, nel primo Novecento attirava ogni anno circa 9.000 persone dalle campagne circostanti.
Alcune scuole furono dotate di un impianto esplicitamente monumentale e vennero intitolate a membri della famiglia Savoia (Duca degli Abruzzi, Duca d’Aosta, Vittorio Amedeo II, Re Umberto I, Margherita di Savoia).
Lo stile architettonico scelto dal fascismo per gli edifici pubblici e l’urbanistica fu il Razionalismo, che ben presto finì per identificarsi totalmente nel regime, diventandone la diretta manifestazione artistica. In effetti, dal punto di vista ideologico, i punti di contatto tra Razionalismo e fascismo erano numerosi e facilmente identificabili, in quanto entrambi proponevano un distacco netto dal passato, recuperandone solo alcuni elementi classici, riletti resi in chiave nazionalistica. Inoltre, il Razionalismo si presentava come strumento di modernizzazione dell’Italia in campo architettonico, necessaria per competere con gli altri paesi europei, maggiormente sviluppati dal punto di vista economico.5
Anche nella progettazione di edifici scolastici il fascismo si appoggiò al Razionalismo, attribuendovi le sue spiccate finalità propagandistiche: le nuove scuole si ispiravano, infatti, alle linee guida tracciate dalla riforma Gentile; quindi, erano dotate di rigorosi corpi di fabbrica, solenni e austeri, erano ricche di forme lineari e classiche rilette in chiave nazionalista, e spesso avevano tratti monumentali, a testimonianza del progetto di grandezza che il regime coltivava per sé e per il Paese. All’interno venivano privilegiati “volumi geometrici elementari, coperture piane, elementi cilindrici e aperture di luce circolare che generavano architetture metafisiche” (BIONDI, 2016, p. 120). Se veniva recuperato il modello ottocentesco della scuola-caserma, il fascismo aggiungeva una particolare cura nell’ingresso e nell’atrio, chiamati a chiamati a rendere immediatamente riconoscibili e rispettabili gli ambienti, e ancor più un’attenzione sconosciuta sino a quel momento per la cura del corpo, da coltivarsi nelle palestre e nelle piscine. Sia negli spazi interni che nell’immagine che dovevano offrire all’esterno le scuole fasciste si proponevano di attestare inequivocabilmente la presenza e la forza del regime, oltre all’adesione alla politica e alla propaganda di Mussolini, dove la potenza fisica rivaleggiava - con successo - con la cultura. In alcuni casi, è presente una torretta che, più che svolgere reali funzioni abitative, serviva a richiamare esplicitamente il fascio littorio, simbolo del regime, come nel caso dell’istituto medico-pedagogico (più tardi intitolato a Padre Agostino Gemelli) (Figure 1 e 2)
Spesso, poi, le nuove scuole edificate dal fascismo sorsero in aree periferiche della città, in quanto i quartieri centrali già disponevano di una rete scolastica adeguata e moderna. Gli edifici scolastici servirono, così, non solo a dare un aiuto reale alla popolazione (in città come Torino le scuole prevedevano anche la mensa per tutti gli alunni e la possibilità di fare la doccia una volta alla settimana), ma contribuirono anche a diffondere i simboli e la propaganda fascista in tutti gli strati sociali. È questo il caso, tra le altre, della Margherita di Savoia (Figura 3), eretta non a caso, come vedremo, nel 1929, in occasione delle celebrazioni per la vittoria della Prima Guerra Mondiale e inaugurata ufficialmente il 28 ottobre 1930. Costruita su tre piani, con un corpo centrale e due fronti laterali, di architettura moderna, dotata di 24 aule, due palestre e fornita di ogni comfort, dai refettori ai bagni, alle docce, agli spogliatoi, la Margherita di Savoia sorge nel quartiere Lucento, che sino a pochi anni prima era considerata zona extra-urbana e come tale disponeva solo di scuole rurali, costituite da villette con al piano superiore gli alloggi per gli insegnanti e una sala unica che serviva “cumulativamente per ingresso, aspetto, palestra ginnastica, ricreazione e spogliatoio” (ABATE-DAGA, 1926).6
Sono anni in cui l’assetto della città cambia anche grazie alla comparsa sul territorio di edifici scolastici molto grandi e capienti, che portano realmente lo Stato nella vita dei cittadini: transito di genitori e alunni al mattino, uomini e donne di ogni età che la sera frequentano i corsi popolari o i corsi serali (come alla scuola Duca d’Aosta, Figura 4), studenti con licenza elementare che seguono i corsi integrativi di avviamento al lavoro (scuola Gabelli). Per molti cittadini la scuola diviene, così, il cuore pulsante del quartiere, il luogo dove si formano le generazioni più giovani e vengono istruiti i lavoratori, e il contesto giusto in cuicoltivare il desiderio di migliorare la propria condizione sociale, studiando e lavorando contemporaneamente, dove si ha la possibilità di lasciare con fiducia i propri figli (alcune scuole attivano, infatti, un servizio di doposcuola per i figli degli operai bisognosi). Intanto, per il fascismo la scuola assurge a mezzo validissimo per diffondere con successo il suo ideale di cittadino-soldato.
La scuola fascista come spazio: le aule e l’arredamento scolastico
In Italia anche la scuola era uscita molto provata dalla Grande Guerra. A Torino, come in buona parte del Paese, e specialmente nelle regioni del Nord, più vicine al teatro bellico, il conflitto aveva impresso una traccia indelebile sulle scuole e sulla loro popolazione: mentre alcuni edifici scolastici erano stati riconvertiti in caserme, rifugi e ospedali, la vita di molti giovani studenti e insegnanti era stata spezzata o indelebilmente segnata.7 Tra il 1915 e il 1918, molte scuole erano state utilizzate a fini bellici, mentre altre erano state adibite a centri di assistenza e ricovero per profughi. Era questo il caso della scuola all’aperto di Villa Genero, la qualeaveva ospitato ottanta alunni del Veneto, dove erano penetrate le truppe austriache.
Non erano mancati gli atti di coraggio e patriottismo tra il personale scolastico: alcune decine di maestri si erano arruolati volontariamente e trentasei maestre comunali avevano chiesto e ottenuto di servire come infermiere nella Croce Rossa. Le scuole elementari intitolate a Giosuè Carducci, Gaspare Gozzi e Ernesto Ricardi di Netro avevano simbolicamente offerto la loro bandiera ad altrettante scuole delle province redente, ovvero occupate dall’Austria (OTTINO, 1951, p. 41).8
Nei tre, lunghissimi anni di guerra furono frequenti nelle scuole torinesi le sottoscrizioni per sussidi alle famiglie dei soldati richiamati, le offerte di oro e di argento, le donazioni per gli orfani di guerra e la spedizione di beni di prima necessità e di doni per le truppe al confine. Ben prima, quindi, che il fascismo salisse al potere, “fanciulli e fanciulle, sotto la guida dei loro insegnanti, impararono in quegli anni di dolore e di gloria come si potesse e si dovesse combattere per il proprio paese anche lontani dal campo di battaglia, anche essendo teneri di anni e di forze” (OTTINO, 1951, p. 41).
Gli osservatori del tempo, nell’elogiare le scuole italiane, avrebbero potuto legittimamente ricordare che “nelle combattute trinceedella sanguinosissima guerra, i fanciulli d’un tempo si rivelarono eroi e diedero con slancio la giovinezza e la vita alla patria. Dalle doline del Carso, dalle vette del Cadore si levarono i canti della patria appresi un tempo sui banchi della scuola, si ricordarono le gesta e gli olocausti dei martiri della patria che la scuola elementare aveva fatto conoscere e venerare” (OTTINO, 1951, p. 41).
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, il bilancio delle vite umane perse era molto pesante: presso la storica scuola Troya, al termine della guerra, si tenne una cerimonia ufficiale nel corso della quale Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta lesse l’appello dei caduti. Alla luce del tributo in termini di vite umane pagato durante la Grande Guerra, in Italia da subito prese avvio un’intensa campagna celebrativa, talvolta organizzata dal governo, ma più spesso spontanea e sganciata dalle manifestazioni ufficiali. Sino a che non salì al potere il fascismo, non furono isolate neppure le voci discordanti, critiche nei confronti della politica e della cultura che avevano portato alla tragedia della guerra mondiale.
Quando i fascisti assunsero la guida del Paese non solo vennero messe a tacere le posizioni anti-belliche, ma soprattutto colsero appieno il valore ideologico del culto del martirio e della vittoria connessi al ricordo della Prima Guerra Mondiale e standardizzarono i temi e i contenuti delle celebrazioni, piegandoli in chiave nazionalistica e militaristica.9 Da quel momento, “il culto dei morti divenne parte essenziale per alimentare quello spirito ritenuto necessario alla costruzione di una più grande Italia - per riprendere la ricorrente espressione dannunziana -, ma connotata in senso fascista. Colonne classiche, lupa romana, figure di legionari accompagnarono con sempre più frequenza un lessico incentrato sulla “eroica morte” e sulla “gloria perenne” (GENOVESI, 2016, p. 89).
Nel 1921, sessantesimo anniversario dell’unificazione, nonostante le resistenze dei partiti ostili al conflitto, era stata predisposta una cerimonia in omaggio al milite ignoto che si ispirava ad analoghe commemorazioni celebrate in Francia e in Inghilterra.10 I fascisti andarono molto oltre tali esempi: manipolando i fatti storici, con modalità che sarebbero divenute tipiche del Ventennio, il regime legò i morti veri della Grande Guerra ai martiri immaginari della marcia su Roma. In questa operazione il fascismo fu agevolato dalla vicinanza temporale tra le date del 28 ottobre - marcia su Roma -, del 4 novembre - la vittoria della Seconda Guerra Mondiale - e del 2 novembre - la festività dei morti. Nella ricostruzione offerta dal governo fascista la vittoria 4 novembre 1818 veniva implicitamente letta come risultato della marcia su Roma del 28 ottobre e, quindi, dell’avvento del fascismo.
In tal modo, il culto dei caduti nella Grande Guerra assurse a mito costitutivo del fascismo. L’investimento che il regime fece su questo fronte fu molto importante, se già nel 1925 la circolare 102 del 19 ottobre concesse la vacanza in tutte le scuole, annoverandola di fatto tra le festività civili.
Ma fu soprattutto dopo il 1928, anniversario del decennale della vittoria, che la pedagogia basata sul culto del milite ignoto, e più in generale dei caduti per la patria, divenne, per così dire, endemica nel sistema propagandistico e formativo fascista.
Il 1° febbraio 1927, infatti, il Ministero dell’Educazione nazionale aveva pubblicato sul “Foglio d’ordini” del Partito Nazionale Fascista un articolo dal significativo titolo Non monumenti ma asili, dove si sosteneva che “troppi monumenti che sovente contrastano con l’arte, già adornano le piazze e le strade d’Italia”. Per questo, l’articolo esortava a che “i Fasci, d’ora in poi, invece di monumenti dedichino ai caduti case che ne portino col nome il ricordo”.11
Era quella la prova che i tempi erano maturi affinché le celebrazioni entrassero nella vita quotidiana degli italiani attraverso complessi architettonici utili alla vita sociale. Fu questo lo spirito che alimentò la proliferazione degli “asili monumentali”, ma anche delle scuole e degli ospedali, più frequenti nei comuni dalle modeste possibilità economiche, dove era più avvertita l'efficacia di investire il denaro della comunità in edifici utili piuttosto che in monumenti o sacrari.
Nelle scuole di Torino, così come in molte altre grandi città italiane, il culto dei caduti della Grande Guerra fu coltivato per mezzo dell’inondazione degli edifici scolastici con lapidi e targhe commemorative. A partire dal 1928, in tutti gli edifici scolastici le vittime di guerra furono ricordate intitolando ogni aula a un ex allievo e insegnante caduto, attraverso l’affissione di una targa celebrativa. Le targhe sono presenti complessivamente in trentanove compartimenti scolastici, in ventuno dei quali furono inaugurate contemporaneamente nella giornata del 24 maggio 1929. In tutto vennero collocate 1276 targhe, pagate perlopiù con collette dalle famiglie dei caduti, da benefattori ed ex allievi (OTTINO, 1951, p. 62). In quel giorno, gli scolari torinesi parteciparono alle manifestazioni per celebrare il decennale dalla battaglia di Vittorio Veneto e, presso la scuola elementare Gabelli, alla presenza di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, inaugurarono le targhe in memoria dei caduti, affisse fuori dalle aule. Non furono rare le scuole che allestiscono al loro interno mostre di cimeli di guerra, anch’esse curate e vegliate da picchetti di studenti.
Ogni insegnante nominava annualmente una guardia d’onore, scelta tra i suoi alunni, a cui spettava il compito di coordinare le celebrazioni, affinché i martiri della patria ricevessero un “tributo costante di onore dai fanciulli che vi sfilavano davanti salutando e vi recavano omaggio di fiori e di inni” (OTTINO, 1951, p. 64). Una nutrita rappresentanza delle guardie d’onore degli studenti torinesi fu inviata a Roma,l’8 maggio 1927, al fine di deporre una corona all’Altare della patria, per celebrare ancora una volta l’“eroe sconosciuto”.
Fu questo anche un modo che il fascismo ideò per “colonizzare”, con la simbologia propria del regime, le scuole di costruzione più antica. Da un punto di vista squisitamente architettonico vennero, così, a fondersi stili diversi, il liberty e il neo-classicismo, che avevano ispirato buona parte degli edifici scolastici della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, con il razionalismo. Dal punto di vista pedagogico, tutte le scuole torinesi contribuirono a diffondere il messaggio fascista improntato alla venerazione del sacrificio dei soldati periti nella Prima Guerra Mondiale e volto alla formazione di una nuova generazione di soldati, pronti al martirio qualora chiamati dal duce.
Se le targhe erano - e rimangono in grandissima parte ancora oggi - collocate al di fuori delle aule scolastiche, il culto dell’eroe patrio entrò in diversi modi anche al loro interno. Il 5 giugno 1924, il ministro Gentile emanò un’ordinanza che prescriveva l’introduzione di “un bassorilievo della Dea Roma vigilante la salma del Milite stesso particolare del Monumento a Vittorio Emanuele II in Roma” (Figura 5) con la motivazione che “una raffigurazione simbolica del Milite Ignoto nelle aule scolastiche contribuirebbe ad ispirare negli allievi vivo amore e profonda devozione alla Patria” (SOCIETÀ..., 1929).
La Cooperativa Fonditori e affini fra Mutilati ed Invalidi di guerra, a cui il ministero aveva affidato l’esclusiva per la produzione del bassorilievo, ne produsse di due tipi diversi, alcuni “più piccoli e più modesti adatti per scuole rurali, ai più grandi e di lusso adatti per le scuole dei grandi centri” (SOCIETÀ..., 1929).12 Immediatamente, la statuetta entrò nel materiale obbligatorio per tutte le classi, insieme con i ritratti del re e del duce e con il crocefisso. (Figura 6)
La scuola fascista come ambiente: il culto della vittoria e dell’eroismo attraverso i parchi della rimembranza e i materiali scolastici
In linea con la sua vocazione totalitaria, il fascismo si rivelò molto abile nel tenere legata l’educazione impartita a scuola con quella extra-scolastica, costruendo una pedagogia capace di raggiungere i giovani in ogni momento della loro vita. Vanno letti in questo senso provvedimenti come l’attribuzione all’Opera Nazionale Balilla della gestione dell’educazione fisica nelle scuole. In tal modo, veniva garantita la formazione del cittadino soldato, capace di mettere in pratica il precetto che campeggiava sui muri e sui libri del Ventennio: “Libro e moschetto, fascista perfetto”. L’ora di ginnastica diventava, così, un’occasione per imparare a sfilare e a cantare in coro, abilità che sarebbero tornate utili nelle parate pubbliche che il regime organizzava con grande frequenza e con altrettanta solennità e a cui affidava una parte importante della propria rappresentazione all’interno e all’esterno dei confini nazionali.
La vita scolastica non si svolgeva, quindi, interamente dentro le aule, ma portava gli studenti a recitare parti importanti nella vita del Paese, svolgendo allo stesso tempo il ruolo di destinatari e mittenti della propaganda del regime. Luoghi educativi per eccellenza del Regime furono i parchi e i viali della Rimembranza, dove veniva piantato un albero per ciascun morto nella prima guerra mondiale o per la causa fascista. Il principale artefice della loro fortuna fu il sottosegretario al ministero dell’Educazione Nazionale Dario Lupi, che tra il 1922 e il 1923 emanò una serie di disposizioni molto precise che ne definirono i canoni di realizzazione e di utilizzo (LUPI, 1923).13 L’esempio era offerto dagli Heldenhaine tedeschi, ideati dall’architetto paesaggista Willy Lange, dove, per ogni soldato caduto veniva piantata una quercia, simbolo del radicamento e della forza dei tedeschi, oltre a un tiglio ,in onore dell’Imperatore.
L’iniziativa conobbe da subito un grande successo, tanto che già nell’ottobre 1923 si registravano 1084 parchi della rimembranza sparsi in moltissimi comuni di tutta Italia. Del resto, il legame tra educazione, propaganda e albero non era nuovo: a parte l’esempio della Rivoluzione francese, con l’albero della libertà piantato in ogni località liberata dalle armate repubblicane, nella scuola italiana tale combinazione era stata rinverdita nel 1899, quando il ministro Guido Baccelli aveva istituito la Festa dell’Albero, al fine di coinvolgere le scolaresche nella cura e nella tutela dell’ambiente. La novità era rappresentata dall’associazione tra alberi e caduti, dal cui esempio gli alunni avrebbero ricevuto una lezione impareggiabile di cittadinanza fascista.
Ancora una volta, il culto della Grande Guerra con i suoi caduti per l’idea di Patria rappresentava un ottimo pretesto per fascistizzare il Paese e, allo stesso tempo, annichilire le opposizioni, sia quelle nei confronti dell’interventismo militare sia quelle contrarie al governo di Mussolini. Ed anche i “martiri del fascismo”, come stabilito da una circolare del febbraio del 1923, venivano ricordati nei parchi e nei viali della Rimembranza accanto ai caduti della Grande Guerra. La saldatura tra la vittoria nella Prima Guerra Mondiale e la marcia su Roma era, in tal modo, ulteriormente ribadita e rinvigorita nell’immaginario collettivo.
Invece che per mezzo di lapidi e targhe, come avveniva a scuola, gli eroi della patria erano celebrati grazie a una serie di alberi disposti in modo simbolico e sistematico, in un progetto in cui l’ordine costituiva il modo più efficace di razionalizzare, e quindi, allontanare la morte. Al centro del parco era comunemente situato un monumento o un masso grezzo che rappresentava la pietra altare, simbolo del ricordo e del sacrificio. In base al regio decreto del 9 dicembre 1923, il compito di vigilare sulle piante messe a dimora e mantenere vivo il culto dei caduti fu assegnato agli studenti migliori sia delle elementari che delle medie. Le scuole dovevano garantire un costante servizio di guardia d’onore e gli alunni prescelti, oltre a fare da custodi di quel luogo sacro alla nazione, dovevano partecipare alle celebrazioni per l’entrata in guerra, la Vittoria e l’emanazione dello Statuto.
Torino si dotò per tempo di un Parco della Rimembranza, che fu inaugurato con una solenne cerimonia il 20 settembre 1925 alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Il parco si sviluppa sulla punta più alta della collina torinese, il colle della Maddalena (a 715 m d’altitudine), ed è ben visibile da tutta la città. Nel1928, per commemorare il decimo anniversario della vittoria dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, il senatore Giovanni Agnelli, proprietario della FIAT, arricchì il parco commissionando una statua-faro in bronzo della Vittoria alata (Figura 7) allo scultore torinese Edoardo Rubino (1871-1954), presidente della locale Accademia Albertina di Belle Arti. La statua si staglia ancora oggi in cima al colle e veglia dall’alto sulle targhe che ricordano i 4.787 soldati torinesi deceduti nella Grande Guerra. Come prescritto dalle ordinanze di Lupi, accanto a ogni albero venne affissa una targa in metallo con il nome di un caduto, corredato dalla data e dalla località della morte, mentre altre lapidi in pietra ricordano i nomi dei battaglioni impiegati nel conflitto. (Figura 8) Viali e sentieri sono, inoltre, intitolati ai luoghi delle principali battaglie della Grande Guerra.14
La celebrazione dei caduti e dei martiri della patria era anche prescritta dai programmi scolastici e nei libri di testo del Ventennio. Come abbiamo già visto, il calendario scolastico prevedeva la celebrazione delle date importanti del regime, inserite tra i giorni di vacanza e spesso rievocate per mezzo di parate e cerimonie pubbliche. Anche i libri di Stato per tutte le classi elementari, introdotti dal regime nel 1929 in sostituzione di quelli prodotti liberamente dagli editori sino a quel momento, dedicavano interi capitoli agli stessi temi. Oltre a descrivere in maniera romanzata le tappe della salita al potere del fascismo, insistendo soprattutto sulla Marcia su Roma, i manuali illustravan onel dettaglio il senso delle festività fasciste. Inoltre, veniva dedicato ampio spazio alla Prima Guerra Mondiale e ai suoi eroi, come Cesare Battisti, Enrico Toti e Nazario Sauro. Ampio spazio avevano anche il culto del milite ignoto e della Grande Guerra.15 Particolarmente evocativo è in questo senso il manuale di Alfredo Petrucci, intitolato significativamente L’italiano nuovo. Il libro della seconda classe, dove il paragrafo relativo al milite ignoto è corredato dall’immagine della dea di Roma che veglia la tomba dell’eroe sconosciuto, versione stilizzata del bassorilievo che campeggiava nelle classi. (Figura 9)
E che si trattasse di temi centrali nel programma e nella vita quotidiana dei bambini italiani è provato anche dalle numerosissime tracce che hanno lasciato nei quaderni, dove componimenti, canzoni e disegni sono spesso relativi proprio alle festività e ai culti del regime. (Figura 10)
L’estetica al servizio della pedagogia: l’educazione del cittadino-soldato fascista attraverso l’architettura, l’arte e le lettere
La pedagogia fascista coniugò strettamente scuola ed extra-scuola, riuscendo a conservare coerenza nei messaggi che passava. In tal modo, la vita scolastica risultava inserita in un panorama culturale e simbolico i cui elementi erano strettamente collegati tra loro, mentre anche al suo interno i principi di riferimento erano estremamente coerenti. Tale coerenza era garantita dalla persistenza dei simboli e dei canoni estetici utilizzati dalla pedagogia e dalla propaganda del regime. Ne offrono un valido esempio gli studenti di Torino, i quali, tutte le mattine, entrando in aula, salutano romanamente il caduto della Grande Guerra ricordato dalla targa affissa fuori dalla porta della classe, e trovano dietro la cattedra la statuetta della dea Roma vittoriosa che veglia sulla tomba del milite ignoto; poi, quando escono da scuola, alzando gli occhi, ritrovano la statua della Vittoria sulle colline circostanti, che sovrasta e protegge il ricordo dei caduti coltivato nel parco della Rimembranza.
Del resto, come spiegava Giuseppe Giovanazzi in La scuola del Balilla. Commento ai nuovi programmi per le scuole elementari, l’insegnamento della storia nella scuola fascista doveva prefiggersi tre scopi: il primo era stimolare la “viva partecipazione sentimentale ai grandi fatti della storia d’Italia rivissuti attraverso le gesta degli eroiche ne furono i protagonisti”; il secondo si proponeva la comprensione storica del passato, cioè delle differenze del passato del presente; il terzo, la formazione di una coscienza nazionale, intesa come consapevolezza dei nostri legami con la storia passata e della nostra influenza sulla storia avvenire,[…] quindi, culto delle memorie reso continuo stimolo di perfezionamento materiale, spirituale, morale” (GIOVANAZZI, 1935, p. 162).16
Nonostante queste premesse, Giovanazzi precisava che, poiché “questi tre scopi non si possono certo raggiungere integralmente nella scuola elementare, ma […] convien anzi dire che probabilmente molti studenti non riusciranno mai neppure come uomini a formarsi una reale coscienza storica ed avranno sì una fede ma non una coscienza nazionale”, obiettivo dell’insegnamento della storia è “rendere la fede nazionale dei giovanetti più fervida, attiva, e, finché sia possibile, consapevole” (GIOVANAZZI, 1935, p. 163). A tal fine, servivano “i racconti di azioni eroiche e di atti generosi compiuti da italiani”, insieme con “le celebrazioni nazionali, le ricorrenze storiche”, capaci di renderli “più aderenti agli immediati interessi dei fanciulli” (GIOVANAZZI, 1935, p. 164).
Tra questi riti Giovanazzi pone al primo posto proprio il culto dei “martiri del Risorgimento nazionale, dei caduti della Grande Guerra e della Rivoluzione fascista”. Esso, per risultare davvero efficace, avrebbe dovuto essere celebrato “con semplicità e sincerità” (GIOVANAZZI, 1935, p. 165). Solo così, le celebrazioni avrebbero raggiunto il loro scopo, ovvero “educare gradatamente nei giovani il sentimento della comunione spirituale tra i morti, che la Patria hanno amato sino all’estremo sacrificio, ed i viventi che devono servirla con eguale devozione. Atto dunque anche profondamente religioso, anzi cristiano, nel quale da due fedi, fuse in un sol sentimento di elevazione spirituale, deve sgorgare uno stesso fermo proposito di condotta, di abnegazione, di sacrificio” (GIOVANAZZI, 1935, p. 166).
Dovendo “educare la fede” fascista, prima ancora di quella cristiana, la scuola non poteva avvalersi solo di contenuti nozionistici e razionali; essa doveva rivolgersi al cuore degli studenti, prima ancora che alla loro mente. Per questo la pedagogia fascista fece ampio e continuo ricorso all’arte in tutte le sue forme, dall’architettura alla scultura, dal disegno alla letteratura, dal canto alla fotografia, dal cinematografo alla radio. Un’arte, completamente piegata al culto della morte e della guerra, che, come era facilmente prevedibile, produsse morti e stragi.
Le sue numerose tracce, ancora oggi ben visibili nelle città e nelle scuole italiane, a distanza di più di settant’anni dalla caduta del fascismo, continuano a darci un’implicita lezione di senso opposto a quello per cui furono create.
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-
1
Sul le relazioni tra pedagogia e architettura in chiave storica vedi: Markus (1993), Thomas (1993), Thyssen (2009), Lawn Martin-Grosvenor (2005), Peim (2005), Staiger (2005).
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2
Vedi anche: Gibelli (2014). Su questi aspetti in modo specifico, sempre di Gibelli (2005).
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3
Sulla legge Gentile e la scuola italiana nel Ventennio vedi, tra gli altri, Ostenc (1980); vedi anche Charnitzky (1996); Betti (1984).
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4
Del tema si occupò distesamente Marraro (1927, p. 33-34) nella sua analisi sulla situazione scolastica italiana.
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5
Sul Razionalismo applicato all’edilizia per la scuola e l’educazione vedi Biraghi; Viganò (2009, pp. 53-70). Vedi anche Bocchetti (2014) e Melograni (2008).
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6
Vedi anche Scuola di italiani (2012).
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7
Su Torino durante e dopo la Prima Guerra Mondiale cfr., tra gli altri, i saggi raccolti in Tranfaglia (1998). Vedi anche Spriano (1972).
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8
Sulle scuole torinesi nel primo Dopo guerra vedi anche Pogliani (1925).
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10
Sulla commemorazione della vittoria nei Paesi europei, con particolare attenzione ai casi di Francia e Inghilterra, cfr. Dogliani (2012, p. 115-125).
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11
Il testo è parafrasato dagli Annali dell’istruzione elementare: rassegna bimestrale della Direzione generale per l'istruzione elementare. Roma: Libreria del Littorio, 1928, Volume 3, pp. 46-47.
-
12
Vedi anche Genovesi (2016, p. 109).
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13
Sui parchi e viali della Rimembranza vedi Isnenghi (1998) e Cresti (2006).
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14
Sul Parco della Rimembranza torinese vedi Fara (2015); Gli alberi della memoria: il Parco della Rimembranza di Torino tra storia, arte, natura (1994); Magnaghi, Monge, Re (1995).
- 15
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16
Su Giovanazzi, studioso di pedagogia e autore prolifico di saggi e libri per ragazzi, vedi Fava (2004, pp. 199-204).
Publication Dates
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Publication in this collection
02 May 2019 -
Date of issue
Jan-Feb 2019
History
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Received
10 Nov 2018 -
Accepted
14 Dec 2018