Open-access Confini contesi: chiusure selettive e iniziative solidali

Contended borders: selective closures and solidarity initiatives

Riassunto.

L’articolo si propone due obiettivi. In primo luogo intende approfondire il tema del ritorno dei confini, illustrandone l’articolazione a diversi livelli e il funzionamento selettivo, come effetto di un regime neo-liberale di governo della mobilità umana: un regime che incorpora disuguaglianze profonde nella distribuzione del diritto a muoversi attraverso i confini. Il caso dei respingimenti al confine con la Bosnia e la responsabilità dell’agenzia Frontex verranno approfonditi per illustrare il funzionamento della vigilanza sulle frontiere da parte dell’UE. La pandemia inoltre ha favorito il rafforzamento di misure di restrizione degli accessi dei migranti indesiderati nei paesi sviluppati. In secondo luogo, l’articolo rivolge lo sguardo agli attori e alle iniziative che cercano di aprire spazi di solidarietà e accoglienza nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo, contestando sul piano pratico l’assolutizzazione dei confini e l’esclusione di chi bussa alle porte del Nord del mondo. Tra i molti esempi possibili, ne vengono trattati due: le cosiddette “città santuario” e i corridoi umanitari. A partire da questi esempi sarà sviluppato nelle conclusioni il concetto di “solidarietà contro i confini”.

Parole chiave: confini; politiche migratorie; mobilità; solidarietà; COVID; città santuario; corridoi umanitari

Abstract

The article has two objectives. First of all, it intends to deepen the theme of the return of borders, illustrating its articulation at different levels and its selective functioning, as an effect of a neo-liberal regime of government of human mobility: a regime that incorporates profound inequalities in the distribution of the right to move across borders. The case of push-backs at the border with Bosnia and the responsibility of the Frontex agency will be investigated to illustrate the functioning of border surveillance by the EU. The pandemic has also favored the strengthening of measures to restrict the access of unwanted migrants in developed countries. Secondly, the article looks at the actors and initiatives that try to open spaces of solidarity and welcome towards migrants and asylum seekers, challenging on a practical level the absolutization of borders and the exclusion of those who knock on gates to the North of the world. Among the many possible examples, two are discussed: the so-called "sanctuary cities" and the humanitarian corridors. Starting from these examples, the concept of “solidarity against borders” will be developed in the conclusions.

Keywords: borders; migration policies; mobility; solidarity; COVID; sanctuary city; humanitarian corridors

Questo articolo si propone due obiettivi. In primo luogo intende approfondire il tema del ritorno dei confini, illustrandone l’articolazione a diversi livelli e il funzionamento selettivo, come effetto di un regime neo-liberale di governo della mobilità umana: un regime che incorpora disuguaglianze profonde e pressoché inavvertite da chi si trova in una posizione forte nella distribuzione del diritto a muoversi attraverso i confini. Vedremo come la pandemia ha favorito il rafforzamento di misure di restrizione degli accessi dei migranti indesiderati nei paesi sviluppati.

In secondo luogo, l’analisi che propongo rivolgerà lo sguardo agli attori e alle iniziative che cercano di aprire spazi di solidarietà e accoglienza nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo, contestando sul piano pratico l’assolutizzazione dei confini e l’esclusione di chi bussa alle porte del Nord del mondo. Tra i molti esempi possibili, ne tratterò due: le città santuario e i corridoi umanitari. A partire da questi esempi proporrò nelle conclusioni il concetto di “solidarietà contro i confini”.

1. Il ritorno dei confini

In tempi di globalizzazione economica, si assiste a una riaffermazione dei confini nei confronti degli ingressi, non degli stranieri in generale, ma di stranieri indesiderati, in quanto percepiti e classificati come poveri: il presidio delle frontiere è uno dei simboli residui di una sovranità nazionale sempre più erosa e aggirata (Opeskin, 2012).

I confini si sono moltiplicati e disseminati, sono diventati più complessi e sofisticati (Balibar, 2012; Newman, 2006). Sono oggetto di accordi internazionali e prevedono l’adozione di tecnologie sempre più avanzate, il dispiegamento di reparti armati alle frontiere, l’introduzione di controlli più sofisticati negli aeroporti. E’ così cresciuta un’industria del controllo dei confini (Andersson, 2016), con cospicui investimenti da parte dei governi nel dispiegamento di droni, visori notturni, sistemi radar alle frontiere, body scanner e sistemi di archiviazione delle impronte digitali negli aeroporti, forze di sicurezza pubbliche e private. Ma i governi ricorrono anche all’antichissima tecnica dei muri: barriere fisiche per separare noi e gli altri, i civilizzati dai barbari, i cittadini legittimi dagli stranieri indesiderati. Come molti secoli fa, al tempo del Vallo di Adriano in Gran Bretagna o della Muraglia cinese, con funzioni e giustificazioni assai simili.

I confini odierni inoltre non sono soltanto presidiati a livello nazionale. Il loro controllo evolve in tre direzioni: verso l’alto, verso il basso e verso l’esterno (Guiraudon, Lahav, 2000). Verso l’alto, per la devoluzione di compiti di sorveglianza a istituzioni sovranazionali, come il sistema Frontex nell’UE. Di recente è entrata in vigore nell’Unione europea un’innovazione normativa di grande significato simbolico e politico: il passaggio da un controllo dei confini delegato ai singoli Stati, oggi specialmente quelli collocati sulle frontiere esterne dell’Unione, a una vigilanza condivisa, affidata a una guardia di confine europea. Al remoto confine tra Bulgaria e Turchia, quasi un moderno deserto dei Tartari, è spettato il discutibile onore di tenere a battesimo questa ambigua innovazione.

E’ una novità significativa, perché il controllo dei confini è una delle prerogative più antiche e meglio custodite degli Stati nazionali. Mentre in Europa e nel mondo tornano alla ribalta i nazionalismi che alzano i muri, de-nazionalizzare il controllo dei confini e farne una missione istituzionale europea potrebbe rappresentare un passo nella direzione di un governo politico più adeguato al tempo presente e alla sua complessità: articolato su diversi livelli, basato sulla collaborazione intergovernativa, capace di riconoscere che i confini di un sistema integrato come quello europeo non riguardano soltanto i singoli Stati.

C’è però un aspetto preoccupante: i governi incrementano la collaborazione sul terreno della sicurezza, si accordano per vigilare meglio sui confini, si aiutano per tenere lontani gran parte di coloro che chiedono di entrare. Nel frattempo, la politica europea comune sull’accoglienza dei rifugiati non riesce a decollare, bloccata dall’opposizione aperta o strisciante della maggior parte dei governi. La divaricazione tra politiche della sicurezza e politiche dell’accoglienza non potrebbe essere più stridente. L’Europa si è accordata per sigillare i confini, non per renderli permeabili alla protezione dei diritti umani. La recente accoglienza dei rifugiati dall'Ucraina (marzo 2022) ha introdotto un fatto nuovo, ma è dubbio che si estenda ai profughi di altre guerre: l'UE l'ha presentata come una risposta eccezionale a una situazione eccezionale.

Verso il basso il controllo dei confini vede un crescente coinvolgimento di autorità locali: in diversi paesi su richiesta delle autorità nazionali, che chiedono ai governi urbani più controlli su chi circola nel loro territorio o chiede di ricevere determinati servizi. In alcuni casi, come in Italia, varie autorità locali si offrono volontariamente, per così dire, di inasprire le politiche migratorie, introducendo divieti aggiuntivi, controlli, filtri selettivi per accedere a determinati servizi o benefici, anche in polemica con i governi nazionali (Ambrosini, 2021). Si possono ricordare come esempi le mobilitazioni contro l’insediamento di centri di accoglienza per i richiedenti asilo, oppure a casi come quelli che si sono verificati nella città di Lodi (Lombardia) o nella regione Veneto: agli immigrati e solo a loro per fruire della mensa scolastica a tariffa agevolata nel primo caso, ai buoni per l’acquisto di libri scolastici nel secondo, è stata richiesta una documentazione aggiuntiva che comprovasse l’assenza di proprietà immobiliari o conti correnti in patria, malgrado che diversi consolati abbiano avvertito dell’impossibilità di ottenerla.

I confini poi si espandono verso l’esterno, per la responsabilizzazione di attori privati, come le compagnie aeree o i datori di lavoro, o l’ingaggio di agenzie private a cui sono devolute importanti operazioni di sicurezza: sia al momento di intraprendere un viaggio internazionale, sia nell’accesso a un posto di lavoro, a una banca, ad altri servizi, dei soggetti privati sono chiamati a svolgere compiti di verifica dell’identità delle persone, dell’autenticità dei documenti, della loro validità ai fini delle attività che desiderano svolgere.

Dobbiamo però aggiungere una quarta importante evoluzione, che riguarda principalmente i richiedenti asilo: le autorità nazionali e dell’UE hanno introdotto delle politiche di outsourcing (Lavenex, 2006), ingaggiando governi di paesi terzi, di solito prossimi ai confini, nella sorveglianza delle frontiere. Un’operazione che riesce più efficacemente quando si tratta di colpire gli spostamenti di persone in transito, che non sono quindi cittadine dei paesi interessati: colpire dei cittadini comporterebbe sgradevoli implicazioni per i governi coinvolti. Sono di questo tipo gli accordi con Turchia, Marocco, Tunisia, Niger e ovviamente Libia, nel cui caso è stata introdotta la significativa variante del finanziamento non solo dei governi, ma anche di milizie e poteri locali: gli stessi, a quanto si sa, che in precedenza lucravano sul transito dei migranti. In tal modo i governi europei salvaguardano almeno formalmente la loro immagine di rispetto dei diritti umani, delegando il lavoro sporco di repressione della mobilità ad autorità di paesi esterni. A loro è stato demandato il compito di fermare i richiedenti asilo in transito prima del loro ingresso sul territorio dell’UE, dove potrebbero domandare la protezione internazionale. Poco importa come sono trattati e in quali condizioni trattenuti. Ricordiamo che la Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra, che le condizioni dei suoi centri di detenzione sono state più volte denunciate per la loro disumanità, che le istituzioni internazionali non riescono ad accedervi e neppure a organizzare i centri di accoglienza sotto controllo internazionale a suo tempo promessi.

Nel medesimo tempo l’accoglienza umanitaria è diventata sempre più volontaria e quindi facoltativa. L’UE è rigidissima sulle regole applicate alla produzione di latte o di olio di oliva, ma assai flessibile sulla protezione dei diritti umani. Su questo tema il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) ha vinto la partita, ma gran parte dei giocatori sono stati contenti di perderla. Ciò che rischia di rimanere sul terreno però non è soltanto la solidarietà con i rifugiati, bensì il senso e lo spirito del progetto europeo.

2. La selezione degli ammessi

I confini tuttavia non sono impenetrabili per tutti. Sono invece selettivi e mirati (de Haas, Natter, Vezzoli, 2018). In Italia le norme prevedono una ventina di tipi di permessi di ingresso, senza contare gli accordi che consentono l’ingresso dei cittadini di vari paesi senza obbligo di visto. In altri paesi la normativa è ancora più differenziata.

Nella gestione della tensione tra confini e aspirazioni di mobilità l’impressione prevalente vede una mancanza di visione e di strategia, ma in realtà alcune decisive scelte politiche sono ben individuabili, e tracciano una relativa convergenza nell’ambito del mondo sviluppato.

Riguardo a quelle che vengono definite “migrazioni economiche”, la scelta dei governi dell’UE e più in generale del Nord globale è quella della selezione dei candidati secondo tre criteri, che potremmo definire le tre P: i passaporti, i portafogli, le professioni (Ambrosini, 2020).

Rispetto ai passaporti, va anzitutto osservato che nel mondo questi hanno una capacità ben diversa di aprire le porte di altri paesi. Secondo l’Henley Passport Index, basato sui dati forniti dalla IATA, l’organizzazione internazionale delle compagnie aeree, il passaporto più pregiato è quello del Giappone, che consente di entrare liberamente in 190 paesi su 227. Segue Singapore (189), poi Francia, Germania, Corea del Sud (188). L’Italia si colloca al sesto posto (187), insieme Danimarca, Finlandia, Spagna e Svezia. In coda alla classifica troviamo invece i paesi con i passaporti più deboli, in grado di consentire l’accesso a un numero ristretto di destinazioni: i passaporti di Afghanistan e Iraq permettono di entrare soltanto in 30 paesi, mentre hanno bisogno di essere corredati di un visto per entrare in 196 paesi. Siria e Somalia hanno documenti di poco migliori, con 32 destinazioni accessibili, mentre il Pakistan arriva a 33. Le disuguaglianze sono quindi profonde, più di 1 a 6 tra i primi e gli ultimi della graduatoria1.

A livello europeo la selezione degli stranieri relativamente graditi riguarda principalmente il favore accordato ai cittadini dell’Europa Orientale (Finotelli, Sciortino, 2013). Si è proceduto anzitutto con l’allargamento dell’UE verso Est: una politica migratoria non dichiarata come tale, che ha concesso a milioni di persone la libertà di circolare e di cercare lavoro nei paesi più prosperi e bisognosi di manodopera, Italia compresa. Con la politica dei visti inoltre si tollera l’ingresso dei cittadini di un numero crescente di paesi europei non comunitari (Tholen, 2009): sotto un governo di centro-destra, l’Italia nel 2010 ha eliminato l’obbligo del visto per tutti i paesi dell’area balcanica. Il governo Gentiloni (centro-sinistra) nel 2017 l’ha eliminato per l’Ucraina, in ottemperanza a una scelta dell’UE. Più in generale si autorizza facilmente l’ingresso dei cittadini di paesi sviluppati o presunti tali. Il Brasile per esempio, anch’esso sollevato dall’obbligo del visto dal governo Berlusconi-Maroni. Nel complesso, i governi dell’UE non richiedono il visto ai cittadini di una cinquantina di paesi del mondo. Certo, formalmente si tratta di solito di ingressi per motivi turistici e per periodi inferiori ai tre mesi, ma come è ormai sufficientemente noto una volta che uno straniero è entrato sul territorio nazionale rimpatriarlo non è operazione né agevole né di poco costo. Per di più, stando alle norme vigenti, una volta espulso potrebbe agevolmente rientrare, eventualmente ricorrendo a un altro passaporto.

Anche nella gestione caso per caso delle domande di visto, quando è richiesto, gli studi sul tema mostrano che verso l’Est dell’Europa le autorità dell’UE sono più liberali che verso il Sud del mondo. Anche per questa ragione gli immigrati residenti nell’UE oggi sono prevalentemente europei, mentre non sempre lo erano trent’anni fa, quando la cortina di ferro era ancora chiusa. L’europeizzazione dell’immigrazione è stata quindi un risultato ricercato e attivamente perseguito, anche se dichiarato solo in parte.

A proposito dei portafogli, i governi autorizzano con favore crescente l’insediamento degli stranieri che si presentano come investitori. In certi paesi anche all’interno dell’UE, come Cipro e Malta, si accorda loro la cittadinanza, se investono una certa cifra e assumono una o due persone. Mentre discutiamo di ius soli e ius sanguinis, è stato introdotto lo ius pecuniae: la facoltà di acquistare la cittadinanza grazie al denaro. Parecchi magnati russi per esempio si sono avvalsi di questa facoltà, aggirando così le sanzioni anti-Putin.

Infine le professioni: con uno specifico permesso, la Carta Blu, l’UE ammette l’ingresso di professionisti di diversi settori. Al di là di questo specifico canale, non entrano solo scienziati ed esperti di tecnologie di punta: la circolazione di migranti qualificati, nell’UE come in tutto il Nord del mondo, riguarda soprattutto il personale sanitario (v. oltre).

Tra le professioni privilegiate dalle normative figura anche quella di studente. Alcune restrizioni sono intervenute negli ultimi anni, negli USA di Trump, nel Regno Unito della Brexit, occasionalmente anche in Italia, quando gli studenti provengono da paesi sospetti o etichettati, come il Bangladesh dopo l’attentato di Dacca o l’Egitto del caso Regeni. In generale però gli studi superiori all’estero sono uno dei pochi canali d’ingresso per i giovani (abbienti) del Sud del mondo. Molti di essi poi in un modo o nell’altro rimangono nei paesi in cui hanno studiato.

3. Come funziona il controllo dei confini dell’UE: il caso Bosnia e il ruolo di Frontex

Per comprendere meglio il funzionamento del controllo dei confini dell’UE è istruttivo prendere in considerazione un caso concreto: quello del trattamento dei potenziali richiedenti asilo che dalla Bosnia cercano di entrare in Croazia per proseguire poi il loro viaggio verso i paesi centrali dell’UE.

Mediante una sorveglianza militarizzata e anche violenta del confine croato, tra la fine del 2020 e i primi mesi del 2021 è salito alla ribalta il caso di migliaia di rifugiati trattenuti in Bosnia, e ridotti a vivere all’addiaccio nei boschi o in ricoveri di fortuna dopo che un incendio ha distrutto il campo di Lipa, allestito con i fondi dell’UE. Si tratta di circa 1500 persone - perlopiù migranti provenienti da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Molti di essi sono stati respinti dall’UE con procedure sbrigative e, secondo quanto emerso, probabilmente illegali. La stessa Italia è coinvolta. Da Trieste sono stati ordinati respingimenti di profughi verso la Slovenia, che poi li trasferisce in Croazia, che a sua volta li ricaccia in Bosnia, da cui erano riusciti a filtrare. Tra l’inizio del 2020 e la metà di novembre le autorità italiane hanno infatti rimandato in Slovenia 1.240 persone (il 420% in più rispetto al 2019: dati Altreconomia2), poi respinte a catena fino al confine bosniaco. Sono le cosiddette riammissioni attiveeffettuate dalla polizia di frontiera a Trieste e a Gorizia, che il governo ha finalmente rivelato. Come in una specie di drammatico gioco dell’Oca, i profughi vengono rispediti alla casella di partenza. Le persone coinvolte tra loro lo chiamano “the game”: è la roulette dei tentativi di raggiungere i paesi interni dell’UE, molto spesso a piedi, nella speranza che le promesse di tutela dei diritti umani riguardino anche loro.

Non lascia però spazio a molto ottimismo il Libro Nero dei respingimenti, un rapporto di 1.500 pagine pubblicato nel novembre del 2020 dal Border Violence Monitoring Network, frutto di quattro anni di lavoro, in cui sono state raccolte 892 testimonianze e documentata l’esperienza di 12.654 vittime di violazioni dei diritti umani lungo la rotta balcanica (BVMN, 2020). La Croazia è il punto più critico di una vicenda che si è consumata a lungo ai confini dell’UE in una sostanziale indifferenza. Lì i migranti vengono sistematicamente picchiati, derubati e ricacciati oltre il confine con la Bosnia. Soltanto tra maggio 2019 e novembre del 2020, il Danish Refugee Council ha registrato 22.550 respingimenti dalla Croazia, 1.128 soltanto nel novembre del 2020, rilevando che nell’80% dei casi le persone coinvolte hanno denunciato di aver subito maltrattamenti, abusi, violenze3.

Le istituzioni dell’UE accusano le autorità bosniache di non aver approntato soluzioni idonee all’accoglienza dei profughi, nonostante i finanziamenti ricevuti da Bruxelles. Per il tormentato paese balcanico, 16.000 ingressi in un anno sono presto diventati ingestibili. Non sta più funzionando la collaudata strategia dell’esternalizzazione degli obblighi di accoglienza e protezione umanitaria che ho ricordato in precedenza. Questa volta al confine bosniaco i sussidi economici non sono bastati a oliare la macchina di una pur precaria accoglienza: le popolazioni locali hanno inscenato proteste e bloccato i tentativi di approntare soluzioni alternative per porre rimedio alla chiusura del campo di Lipa. In altri termini, hanno imitato le dimostrazioni di ostilità verso i profughi che si sono verificate anche in Italia e altrove. In Bosnia comunità locali gravate da povertà, disoccupazione, emigrazione dei giovani si sono sentite chiamare da poteri esterni, lontani e assai più ricchi, a farsi carico dell’accoglienza di gente più sfortunata e bisognosa di loro. Il fatto che queste comunità non siano obbligate a trarre dai loro fondi le risorse per l’accoglienza, ma al contrario ricevano aiuti, non è bastato a convincerle.

L’esternalizzazione degli obblighi di protezione richiede non solo finanziamenti e pressione politica, ma anche comunità locali disposte a tollerare, tra alti e bassi, l’insediamento di profughi che non se ne andranno in breve tempo, e chiederanno di accedere a sanità, educazione, mercato del lavoro. Visto dalla prospettiva della crisi bosniaca, è quasi un miracolo il fatto che da anni in Libano, in Giordania e in Turchia le popolazioni locali si siano adattate alla convivenza con numeri di profughi assai superiori a quelli accolti in Europa, in valore assoluto e in percentuale: 128 ogni 1.000 abitanti in Libano, 69 in Giordania, 43 in Turchia, contro 25 per la Svezia, 14 per la Germania e 3,4 per l’Italia (UNHCR, 2021).

Dunque la colpevolizzazione delle autorità bosniache in realtà nasconde il disappunto per la falla che si è aperta in uno scaricabarile finora riuscito, e che sta ora compromettendo la strategia dell’UE: mantenere le mani pulite, esibendo un formale rispetto dei diritti umani, ma in realtà delegare ad altri sia l’accoglienza, sia eventualmente il compito poco onorevole del trattenimento dei profughi. Un altro colpo alla credibilità dell’UE proviene dai metodi adottati dalla polizia croata, e probabilmente anche da parte di milizie locali auto-organizzate: addebiti fin qui negati, ma confermati da ONG, giornalisti coraggiosi, vittime intervistate e fotografate con i segni sul corpo delle violenze subite.

Queste pratiche di controllo dei confini chiamano in causa Frontex, l’agenzia dell’UE preposta al monitoraggio delle frontiere esterne. Anche su questo versante la credibilità dell’UE sta subendo seri contraccolpi. Il progressivo aumento del mandato operativo di Frontex e del budget relativo è un tipico esempio della crescita pressoché inarrestabile dell’industria del controllo dei confini già ricordata. Un’industria che si nutre della percezione di un’invasione alle porte, di un Nord del mondo sotto assedio, di un’onda montante di migrazioni fuori controllo. Non stupisce quindi che il budget di Frontex si sia moltiplicato nel volgere di pochi anni, passando da 6,3 milioni di euro nel 2005 a 333 milioni nel 2019, a 1,1 miliardi quest'anno, fino a 1,9 miliardi nel 2025: una dotazione senza pari nella storia delle agenzie UE4. Va ricordato che fu proprio un documento di Frontex fatto filtrare alla stampa, e seguito da alcune dichiarazioni del direttore Fabrice Leggeri, a innescare la campagna di criminalizzazione delle ONG impegnate nei salvataggi in mare. Oggi però sono Frontex e Leggeri ad essere finiti sotto inchiesta: un po’ tardivamente l’UE sembra essersi accorta che Frontex, dotata di elicotteri, droni, unità navali, collaborava ai respingimenti illegali nel Mediterraneo Orientale e a quanto pare anche in Bosnia, mettendo in pericolo l’incolumità delle persone coinvolte. Di certo l’agenzia non si è mai dotata dei 40 osservatori incaricati di controllare il rispetto dei diritti umani, che secondo il proprio regolamento avrebbe dovuto assumere. Ad aggiungere una nota di malcostume a un bilancio poco trasparente, sono emerse spese per feste ed eventi a carico dell’Agenzia pari a 2,1 milioni di euro in cinque anni. Quasi la controprova dello strapotere acquisito da un’agenzia che nessuno controllava, tanta era l’importanza politica attribuita alle sue funzioni. Ora sta indagando l’OLAF, l’Ufficio anti-frode dell’UE.

4. L’impatto del COVID-19

L’emergenza COVID-19, tra le sue ripercussioni, ha esercitato un impatto anche sulla percezione dei flussi migratori e sul regime di controllo dei confini. Si sono verificati, soprattutto nelle prime fasi, fenomeni inquietanti di ripulsa ed emarginazione nei confronti di persone di origine cinese e a volte di altri asiatici. In seguito la pandemia ha fornito nuovi pretesti di chiusura nei confronti dei richiedenti asilo provenienti dall’Africa.

La paura che gli stranieri (specie se poveri) diffondano malattie è antica e radicata. L’argomento era già stato invocato negli scorsi anni nei confronti dei rifugiati africani, da alcuni additati come portatori di Ebola, da molti altri tenuti alla lontana anche per presunti rischi sanitari. In Italia alcuni influenti protagonisti dei social avevano diffuso notizie di numerosi casi di TBC e altre malattie. Si sono spesso viste in TV, già prima della pandemia, immagini di agenti di polizia incaricati delle operazioni di identificazione e prima accoglienza, abbigliati con guanti e mascherine. Ma non c’è stata notizia di vere o presunte epidemie che non abbia sollevato la richiesta di chiusura delle frontiere verso rifugiati e immigrati dal Sud del mondo.

In termini generali, le ricerche sull’argomento, come quelle condotte dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), segnalano invece che i migranti sono selezionati alla partenza da un punto di vista sanitario: ben raramente famiglie e comunità investono i propri risparmi o s’indebitano per far partire persone malate. Si forma così un effetto iniziale definito “migrante sano” (Colasanti, Geraci, Pittau, 1991). Sono semmai le condizioni di lavoro e di vita dopo l’arrivo a intaccare la salute degli immigrati (Molli, 2018).

L’ondata sinofoba conseguente alle prime notizie sulla diffusione del COVID 19 si è rivelata particolarmente incresciosa, tanto da attirare l’attenzione dei mass-media internazionali5, perché ha investito cittadini cinesi e naturalizzati residenti qui da anni, nonché attività commerciali, ristoranti, bambini che frequentano le scuole italiane, piccoli calciatori: tutte persone e famiglie che non avevano nessun rapporto con la città di Wuhan e la provincia di Hubei, epicentro dell’epidemia. Il presunto allarme sanitario ha giustificato la discriminazione anche dei più piccoli e indifesi.

Queste reazioni scomposte hanno rivelato alcuni aspetti preoccupanti del tessuto sociale italiano. Se non è giusto affermare che il popolo italiano sia razzista, è altrettanto sbagliato rifugiarsi nell’idea consolatoria secondo cui “gli italiani non sono razzisti”6. Il razzismo attuale, non potendo più fare appello a presunte ragioni “scientifiche”, cerca di volta in volta argomenti apparentemente razionali per sostenere la necessità di cacciare, discriminare o emarginare le proprie vittime (cfr, per un approfondimento del tema, Colombo, 2020; per il caso francese Primon, 2019): può essere la disoccupazione, o il terrorismo, o la sicurezza, da ultimo il Covid-19.

Restrizioni più mirate ed effettive si sono abbattute invece sulle persone entrate dal mare o dai confini orientali come richiedenti asilo. Sono partite subito campagne per isolarli o per vietare loro l’ingresso, mentre si auspicava l’arrivo di turisti stranieri, a cui sono stati rivolti appelli a tornare in Italia non appena la pandemia ha dato l’impressione di una tregua. L’idea che i viaggi internazionali di alcuni siano innocui e gli spostamenti di altri siano perniciosi contiene qualcosa di irrazionale, da pensiero magico. Anche se per una sorta di riflesso condizionato si continuano a guardare con sospetto i migranti poveri, a evitarli o a bloccarli prima che sbarchino, il temibile contagio si è diffuso in Europa e attraverso l’Atlantico mediante ogni sorta di contatto interpersonale. Viaggi d’affari, turismo, visite ai familiari all’estero comportano una circolazione di persone molto maggiore delle migrazioni. Come ricorda Pastore (2021), citando dati Eurostat 2018, e considerando solo il trasporto aereo, gli attraversamenti delle frontiere esterne UE (sia in entrata che in uscita) sono stati circa 400 milioni, quelli di natura migratoria 2,4 milioni. La sproporzione è di tutta evidenza, come pure le implicazioni epidemiche.

In tempi normali nessuno ci fa caso, ma anche nell’emergenza attuale si è visto all’opera un doppiopesismo stridente in materia di precauzioni. Istintivamente, il pericolo è associato alla mobilità dei poveri.

Così, nell’aprile 2020, in prossimità della Pasqua, il governo ha assunto una decisione drastica, vietando gli sbarchi delle persone salvate in mare dalle navi delle ONG fino al 31 luglio. Non la quarantena, come già avvenuto, e come tuttora avviene nei confronti dei richiedenti asilo che arrivano spontaneamente sulle nostre coste. Proprio il divieto di sbarco, con l’eventuale respingimento verso la Libia. In seguito questa linea drastica è stata riconvertita in un obbligo di quarantena su navi inadatte ad accogliere a lungo persone provate da viaggi che avvengono in condizioni estreme.

I giornali vicini al centro-destra e ostili ai rifugiati hanno esultato: ci voleva un’epidemia per chiudere finalmente i porti. E’ stato attuato quanto veniva contestato in precedenza dall’opposizione di sinistra: quei giorni supplementari in mare, quella convivenza forzata in condizioni deplorevoli, quella permanenza su navi non dotate di servizi adeguati, erano le conseguenze di una politica condannata allora come disumana. Si invocava compassione almeno per i più fragili, minorenni, donne, malati.

La vicenda sembra confermare quanto osservato da Triandafyllidou (2020) a livello internazionale: la pandemia da COVID-19 sembra rinforzare ancora di più il trend di securitizzazione dei confini e di ripiegamento nella sovranità nazionale, nello sforzo di proteggere il gruppo degli inclusi (i cittadini nazionali) dagli outsiders, migranti e rifugiati, percepiti come una minaccia per il benessere nazionale. La crisi da Covid 19 sarebbe “un anello aggiuntivo di questa catena della securitizzazione” (Triandafyllidou, 2020, p. 1). La solidarietà interna e l’obbligo degli Stati di proteggere i propri cittadini ha rafforzato la contrapposizione verso persone vulnerabili provenienti dall’esterno, nonostante gli appelli di varie ONG e altri attori non governativi.

5. Due esempi di contestazione pratica dei confini: le città santuario e i corridoi umanitari

Vorrei però a questo punto problematizzare il quadro analizzando due esempi di azioni dal basso volte a costruire delle alternative all’irrigidimento dei confini. Si tratta in entrambi i casi di introduzione di opportunità di accoglienza per le componenti più deboli delle popolazioni immigrate: soggiornanti in condizione irregolare e le persone in cerca di asilo.

Il primo esempio riguarda l’attivismo di diversi governi municipali sulle due sponde dell’Atlantico, che hanno adottato la definizione di “città santuario” o altre simili.

Il movimento delle città-santuario (Bauder, 2017) si è sviluppato dapprima negli USA, cominciando da San Francisco nel 1985, poi anche in Europa (Sabchev, 2021). In queste città le autorità locali, insieme alle organizzazioni della società civile, ai movimenti sociali e a gruppi d’immigrati “sfidano le leggi nazionali sull’immigrazione, le politiche e le pratiche” (Sabchev, 2021, p. 174). Assumendo questa posizione, i governi urbani dichiarano la volontà di proteggere i richiedenti asilo o gli immigrati con uno status legale dubbio o irregolare, anche in contrasto con le leggi nazionali, offrendo sistemazioni abitative, cure mediche, educazione, e altri servizi locali, indipendentemente dallo status legale dei richiedenti. Nello stesso tempo definiscono varie forme di collaborazione e di alleanza politica con le coalizioni di attori pro-immigrati e pro-rifugiati che si formano nelle società civili.

Queste città si presentano dunque come “luoghi di politica pragmatica e focolai d’inclusione”, e allo stesso tempo rivendicano “una sovranità di fatto nei confronti di quella che un tempo era considerata una chiara competenza nazionale” (Oomen, 2019, p. 121). In Europa, esempi di attivismo municipale del genere comprendono Barcellona con il “Ciutat Refugi Plan” (Bazurli, 2019; Garcés-Mascareñas, Gebhardt, 2020); la rete tedesca di “Città solidali” (Christoph, Kron, 2019); il movimento britannico delle “Città Santuario” (Darling, Squire, 2013); le città olandesi che hanno sviluppato soluzioni locali per fronteggiare le politiche di esclusione nazionali (Kos, Maussen, Doomernik, 2015).

Altri esempi di “solidarietà municipale” e del suo “potere generativo” (Sabchev, 2021) hanno coinvolto piccoli centri di regioni periferiche, come le isole greche o la regione meridionale italiana della Calabria: qui i governi locali hanno sviluppato soluzioni creative per l’accoglienza dei rifugiati, attraendo fondi nazionali ed europei. In questo modo hanno creato opportunità di impiego per i residenti e per gli stessi rifugiati.

Inoltre in Europa le città impegnate nell’accoglienza hanno costituito reti di “città solidali”, con l’aspirazione di sviluppare un discorso alternativo sulle migrazioni e l’asilo, con lo scopo di influenzare le politiche nazionali e internazionali, migliorando la governance globale delle migrazioni nel suo complesso (Oomen, 2020). Oomen ha identificato 20 reti di questo tipo, basate principalmente in Europa. In particolare la rete “Solidarity Cities”, istituita nel 2016, collega diversi sindaci europei, con l’obiettivo di promuovere l’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati. Ne fanno parte Atene, Tessalonica, Amsterdam, Barcellona, Lubiana, Napoli, Stoccolma, e dal gennaio 2019 Berlino. Il loro progetto è quello di spingere per un’efficiente e coordinata gestione dell’accoglienza dei rifugiati, sollecitando le istituzioni dell’UE a incrementare i fondi per le città europee in cui è particolarmente numerosa la popolazione dei rifugiati che arrivano o si sono stabiliti (Christoph, Kron, 2019). Heimann e altri (2019) hanno introdotto in proposito il concetto di “solidarietà transmunicipale”, i cui aspetti chiave sono i seguenti: 1) l’azione congiunta tra le città; 2) il focus sui governi locali; 3) l’obiettivo di ampliare la capacità operativa, per esempio condividendo e diffondendo buone pratiche; 4) lo scopo di far avanzare a livello strategico la loro agenda politica mediante la “diplomazia delle città”, tentando d’influenzare i livelli istituzionali sovraordinati.

Il secondo esempio riguarda invece un progetto partito dalla società civile, e più precisamente dalle istituzioni religiose. Si tratta dei corridoi umanitari, un’iniziativa di reinsediamento dei rifugiati promossa e finanziata da soggetti privati. Le misure di reinsediamento da tempo vengono auspicate dall’ONU e sono di fatto attuate da alcuni paesi, come contributo al riequilibrio delle sperequazioni globali nell’accoglienza dei rifugiati. Gli scenari internazionali più recenti si muovono tuttavia in direzione opposta. Nel 2020 la crisi sanitaria da COVID 19 ha fermato o severamente rallentato i progetti di trasferimento dei rifugiati verso paesi terzi. Si spiega così il deludente risultato di fine anno: appena 34.400 rifugiati sono stati reinsediati nel corso dell’anno, appena un terzo di quelli del 2019 (107.800) (UNHCR, 2021).

L’iniziativa italiana dei corridoi umanitari è stata avviata alla fine del 2015 da alcune organizzazioni religiose in accordo con le autorità governative italiane: Federazione delle Chiese Evangeliche, Chiesa Valdese, Comunità di Sant’Egidio, poi anche Conferenza Episcopale Italiana e Caritas (Gois, Falchi, 2017; Ricci, 2020; Schnyder, Sedmak, 2019). I promotori hanno inviato sul posto degli operatori, che hanno preso contatti con le reti locali di accoglienza e predisposto una lista di potenziali beneficiari poi trasmessa alle autorità italiane. Dopo i necessari controlli, il governo italiano ha rilasciato dei visti umanitari validi solo per l'Italia. Una volta approdati in Italia mediante normali voli aerei, in condizioni sicure, legali e ordinate, i beneficiari del progetto hanno potuto presentare la domanda di asilo.

I rifugiati, ormai quasi 3.000 in Italia e quasi 4.000 nell’UE, sono arrivati dai campi profughi del Libano e dell’Etiopia, a cui si è aggiunto nel 2021 anche un piccolo gruppo dal Niger. Un altro recente accordo con il governo italiano (novembre 2021) ha sancito l’avvio di un corridoio a beneficio di un gruppo di profughi afghani. La selezione dei beneficiari ha privilegiato nella prima fase il criterio della vulnerabilità, dando quindi la priorità a persone ferite, torturate, traumatizzate dalla guerra, a famiglie con persone malate o portatrici di disabilità, a madri sole con figli e altre situazioni particolarmente meritevoli di tutela. In un secondo momento invece è stata posta maggiore attenzione al criterio dell’integrabilità, ossia a famiglie in cui vi fossero adulti in grado di inserirsi nel mercato del lavoro. Sono stati ospitati in maniera diffusa in varie località italiane, inizialmente per dodici mesi, e accompagnati nell’apprendimento dell’italiano, nella ricerca del lavoro, nell’orientamento ai servizi. Nel caso del corridoio dall’Etiopia, è stata individuata per ciascun caso una famiglia-tutor incaricata di seguirli a titolo volontario, soprattutto sotto il profilo della socializzazione e delle attività di tempo libero (Schnyder, Sedmak, 2019). Il tutto fra l’altro senza oneri per lo Stato italiano.

Il modello è stato seguito da Francia, Belgio, Andorra, poi anche dalla Germania (Pohlmann, Schwiertz, 2020).

Nell’attuale conflitto politico sull’accoglienza dei rifugiati, l’iniziativa dei corridoi umanitari introduce degli elementi innovativi di notevole interesse (Ambrosini, Schnyder von Wartensee, 2022). Il primo è indubbiamente quello di prevedere degli ingressi ordinati e sicuri, tagliando fuori gli operatori del trasporto illegale. Anche le polemiche riguardanti il disordine degli arrivi, la mancata programmazione, il senso di turbamento dell’ordine sociale, mediante i corridoi umanitari trovano una risposta rassicurante. Gli arrivi non sono calati dall’alto, ma condivisi con le comunità locali.

Il secondo elemento riguarda il coinvolgimento della società civile come protagonista dell’accoglienza, grazie alla partecipazione attiva dei cittadini.

Questo elemento rimanda a un terzo aspetto significativo: la diffusione sul territorio. Un’altra motivazione delle chiusure prende di mira le grandi concentrazioni di richiedenti asilo e il loro impatto sulle società locali. I corridoi umanitari lavorano con piccoli numeri di persone e in collaborazione con attori del territorio che si fanno carico dell’accompagnamento dei rifugiati verso l’autonomia.

Infine merita apprezzamento la dimensione ecumenica della prima iniziativa, quella del Libano, in cui cattolici e protestanti hanno collaborato insieme in nome di valori umanitari comuni, uno schema che ha significativamente influenzato l’analogo accordo francese.

Il progetto dei corridoi umanitari presenta però anche alcuni risvolti problematici. Il primo riguarda la selezione alla partenza. I corridoi umanitari richiedono alcune condizioni preliminari esterne: i beneficiari devono ricevere una prima accoglienza in un paese terzo, lì devono poter essere raggiunti e ascoltati. Qualcuno infine deve prendere l’ardua decisione su chi accogliere e chi lasciare indietro. La questione della responsabilità della selezione apre interrogativi etici e politici drammatici.

Un aspetto è comunque già emerso, e chiama in causa una grande sfida dell’accoglienza umanitaria: occorre privilegiare le persone più vulnerabili o quelle con maggiori potenzialità di integrazione nella società ricevente, anzitutto in ambito lavorativo? Se a volte si ricorre alla retorica dei rifugiati come risorsa, bisogna invece essere consapevoli che i rifugiati ottengono in media risultati inferiori agli altri immigrati sul piano occupazionale. Difficilmente potrebbe andare diversamente.

Si apre così un ultimo interrogativo, già notato per esempio nei reinsediamenti canadesi. E’ il problema della fase successiva all’accoglienza e dell’avviamento all’autonomia. Le persone sono diverse, per capitale umano, formazione precedente, capacità di apprendimento, spirito di adattamento. Non è detto che tutte riescano a rendersi autonome nel tempo stabilito. Un’altra variabile di cui tenere conto è il contesto di inserimento, poiché le economie locali hanno una diversa potenzialità occupazionale. Cercare un lavoro al Sud dell’Italia non è come cercarlo in molte aree del Centro-Nord, più sviluppate e con maggiori opportunità d’impiego.

Anche la dispersione sul territorio può comportare dei risvolti problematici. Rassicura le società ospitanti, ma non è detto che risponda alle esigenze e alle aspirazioni dei rifugiati. In genere rifugiati e immigrati tendono a insediarsi in prossimità di parenti e connazionali, per costruire reti di mutuo sostegno, comunicare nella propria lingua, tenere viva la propria identità culturale. Nella pratica, insediare delle persone a decine o centinaia di chilometri di distanza dai propri connazionali rischia di condannarle all’isolamento, soprattutto se ancora non dispongono di sufficiente padronanza della lingua e non hanno trovato un lavoro o un corso di formazione che permetta di socializzare.

Altra questione è quella del bilanciamento tra sostegno, accompagnamento, avvio all’autonomia. Il rischio della dipendenza assistenziale incombe anche nel caso dei rifugiati, forse più ancora che per altre categorie di soggetti vulnerabili. In ogni caso bisogna tenere conto che rimarrà un certo numero di beneficiari che non riusciranno a conseguire una piena autonomia.

In conclusione, un progetto innovativo come quello dei corridoi umanitari sollecita altre innovazioni e investimenti sociali per raggiungere i suoi encomiabili obiettivi.

Conclusione. Una solidarietà contro i confini

I confini nazionali, in tempi d’incertezze e paure, sono tornati in auge. Un’istituzione sovranazionale come l’UE, sorta con l’ambizione di superare i tragici nazionalismi del passato, si trova oggi coinvolta in processi di chiusura che contraddicono i suoi solenni impegni in difesa dei diritti umani. La difesa dei confini è diventata più sofisticata e articolata, avviene a diversi livelli e coinvolgendo un’ampia gamma di attori e misure restrittive.

Nello stesso tempo la gestione dei confini è selettiva e riflette un regime neo-liberale di governo della mobilità umana: per chi possiede determinate risorse, politiche, economiche o professionali, i confini sono più permeabili che in passato. Per chi non le possiede, sono diventati più ardui e difficili da valicare. Si tratta su scala mondiale della più grave forma di disuguaglianza in seno all’umanità (Faist, 2019).

Questo regime sperequato non si afferma tuttavia in modo incondizionato. I temi dei confini, dell’immigrazione, dell’accoglienza dei rifugiati hanno prodotto profonde polarizzazioni culturali e politiche nelle società riceventi. Abbiamo esaminato qui due esempi diversi di mobilitazione contro le chiusure, che vedono in prima fila le società civili in molti paesi del mondo. Le politiche migratorie possono essere definite come un “campo di battaglia”, in cui diversi attori entrano in gioco, sostenendo posizioni contrastanti, stabilendo alleanze, cercando d’influenzare l’opinione pubblica, e anche attuando iniziative che mettono in discussione le politiche ufficiali (Campomori, Ambrosini, 2020). Restrizioni verso gli immigrati classificati come poveri, selettività nell’accesso alla mobilità, declino dei principi umanitari sono i tratti dominanti nelle politiche migratorie contemporanee, ma non mancano opposizioni, trasgressioni, ricerche di soluzioni alternative. Il caso dei rifugiati dall'Ucraina sta mostrando che un'altra accoglienza è possibile, ma persiste il dubbio che rimanga un'eccezione isolata in un contesto restrittivo.

Sul piano teorico, questo articolo ha proposto il concetto di “solidarietà contro i confini”, riprendendo la definizione della solidarietà che dà Kabeer (2005, p. 7): “la capacità di identificarsi con altri e di agire in unità con essi nelle loro rivendicazioni di giustizia e riconoscimento”.

Le azioni di aiuto contestano le politiche di chiusura in pratica, entrando in tensione con il ritorno a visioni anguste della sovranità nazionale, pur senza puntare generalmente a sovvertire l’ordine sociale e politico e senza condividere l’impianto ideologico e le regole di condotta delle grandi agenzie umanitarie. Erigendo i diritti umani come direttrice focale d’impegno, contrastano le pulsioni xenofobe e aumentano gli spazi politici e culturali per l’insediamento di rifugiati e immigrati in condizione di debolezza sul piano legale e sociale.

Queste forme di mobilitazione solidaristica, con le loro fragilità, limitazioni e conseguenze inattese, vanno viste come manifestazioni di cittadinanza attiva: una nozione che pone l’accento sulle pratiche di cittadinanza effettivamente agite, al di là della dimensione legale, ossia sugli “atti di cittadinanza” (Isin, Nielsen, 2008). Benché questi concetti siano stati coniati con riferimento a gruppi marginali o esclusi, come gli immigrati irregolari, proponiamo di estenderli alle azioni che promuovono forme di “cittadinanza inclusiva” (Kabeer, 2005): specificamente quando si tratta di cittadini nazionali che in vario modo aprono spazi per i nuovi arrivati, come abbiamo visto nel caso dei corridoi umanitari. Quasi negli stessi termini Schwiertz e Schwengen (2020) parlano di “solidarietà inclusiva”, affermando: “le iniziative della solidarietà civile attuate in solidarietà con quanti sono considerati estranei alla nazione assumono una funzione cruciale nello sfidare l’esclusione sociale” (2020, p. 405). Sviluppano una “relazione trasformativa” che contesta la distinzione tra cittadini e non cittadini (Fleischmann, 2020). Azioni pratiche di accoglienza e di aiuto acquistano così un significato politico (Artero 2019). Nella nostra analisi abbiamo considerato altresì le iniziative dei governi urbani, mostrando che anche nell’ambito delle istituzioni pubbliche si alzano voci che rivendicano la priorità dei diritti umani rispetto a una visione angusta e difensiva della sovranità nazionale.

Le azioni di trasgressione pratica dei confini acquistano rilievo anche perché allargano il sostegno nei confronti dei migranti, coinvolgendo istituzioni locali e cittadini che sarebbero riluttanti a impegnarsi in forme esplicite di lotta politica. Di fatto riscrivono la nozione di cittadinanza, arricchendola di nuove idee riguardo all’appartenenza e ai diritti.

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Publication Dates

  • Publication in this collection
    11 May 2022
  • Date of issue
    Jan-Apr 2022

History

  • Received
    23 Dec 2021
  • Accepted
    22 Feb 2022
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