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Dalle illusioni delle emigrate alle sofferenze delle immigrate: il contributo di Sayad in prospettiva di genere

From the illusions of emigrants to the suffering of immigrants: Sayad’s contribution from a gender perspective

Astract (it)

L’articolo rende omaggio al contributo sociologico di Abdelmalek Sayad recuperando una parte della proposta metodologica dell’autore e facendola dialogare con alcune riflessioni sviluppate dalla critica marxiana e femminista di Silvia Federici. L’obiettivo è quello di osservare le trasformazioni sociali correlate al processo migratorio considerando anche i rapporti di forza esistenti nelle relazioni di genere, che connotano l’esperienza tanto di emigrazione che di immigrazione. La rilettura della “doppia assenza”, dal punto di vista delle donne, viene sviluppata ripercorrendo differenti territori dell’Europa Mediterranea, Burkina Faso, Messico e Stati Uniti. Il metodo usato é prevalentemente qualitativo, l’attività di ricerca si è svolta tra gli anni 2012 e 2020. Il testo raccoglie l’invito di Sayad alla ricostruzione complessiva del processo migratorio. In questo caso la prospettiva critica riguarda tanto il pensiero di Stato che il sistema capitalista, così come le strutture sociali patriarcali.

Parole chiave:
emigrazione; immigrazione; critica femminista

Abstract

This article is an acknowledgement of Abdelmalek Sayad’s contribution, by adopting part of the author’s methodological proposal and turning this into a dialogue, with some reflection on Silvia Federici’s feminist criticism. The main aim here is to examine the social transformation resulting from migration while focusing on gender relations as part and parcel of the experience of both emigration and immigration. The re-examining of the “double absence”, from the point of view of women, is developed by retracing the steps back to various territories in Mediterranean Europe, Burkina Faso, Mexico, and the United States. The method used is predominantly qualitative, the research was carried out between 2012 and 2020. The text adopts Sayad’s proposal for an overall reconstruction of the migration process. In this case the critical perspective will take into consideration “state thought” and the capitalist system, as well as a patriarchal social structure.

Keywords:
emigration; immigration; feminist criticism

1. Introduzione

La grande rilevanza del contributo di Sayad allo studio dei processi migratori è data da una rivoluzionaria apertura dell’autore a prospettive rimaste inesplorate da parte di quella sociologia delle migrazioni che egli critica profondamente, in quanto prodotto e, al tempo stesso, alimento del pensiero di Stato colonialista. La rivoluzione sociologica di Sayad riguarda tanto il metodo, che i contenuti da lui proposti.

Innanzitutto colui che interroga, analizza e scrive è parte dello stesso processo investigato ed é proprio questa internità all’esperienza migratoria che permette a Sayad di attuare una rivoluzione analitica, mettendo in luce aspetti mai evidenziati prima con tanta rilevanza. In particolare, l’autore evidenzia come emigrazione e immigrazione siano componenti inseparabili del medesimo processo, “due facce indissociabili della stessa realtà, che non possono essere spiegate l’una senza l’altra” (Sayad, 2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002., p. 9). Inoltre, mette in luce la continuità del rapporto di forza esistente tra terra di origine e terra di destino, in quanto il dominio colonialista è sia premessa strutturale dell’emigrazione, che condizione politica delle forme di accoglienza dell’immigrazione messe in atto dagli Stati riceventi. Infine, segnala come decontadinizzazione ed emigrazione siano processi che si alimentano a vicenda, causa ed effetto reciproco, che, intrecciandosi, incrementano una dinamica destrutturante di esodo rurale (Sayad, 2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002., p. 185).

Un altro contributo fondamentale risiede nella proposta di un metodo analitico multilivello, in cui il processo migratorio viene osservato contemporaneamente da un punto di vista macro, cioè quello della relazione strutturale esistente tra paese di origine e di destino; da un punto di vista intermedio, che riguarda le relazioni comunitarie e famigliari che lo sostengono e che in esso si trasfomano; dal punto di vista micro, che tiene in conto l’esperienza personale, tanto fisica che psicologica, di chi vive sulla propria pelle l’esperienza diretta della “doppia assenza”. Il ventaglio estremamente ampio di aspetti che Sayad prende in considerazione nell’analisi dell’esperienza dell’emigrato algerino, immigrato in Francia durante differenti “età” storiche, costituisce un riferimento fortemente attuale e applicabile a ricerche in atto in territori rurali di paesi impoveriti da rapporti di potere asimmetrici con Stati, storicamente e tuttora, colonialisti.

Si potrebbe quindi sostenere, a posteriori, che dal contributo di Sayad emerge un approccio sostanzialmente intersezionale, che prende in considerazione alcune delle varie forme di discriminazione e dominio insite nel processo migratorio: il razzismo e la disuguaglianza tra classi sociali. L’autore omette però di considerare i rapporti di forza esistenti nelle relazioni sociali tra generi, che connotano tanto l’esperienza di emigrazione come quella di immigrazione.

In questo senso è interessante recuperare la lezione politica offerta da Silvia Federici (2015FEDERICI, Silvia. Calibán y la bruja: mujeres, cuerpo y acumulación originaria. Puebla-Oaxaca: Tinta Limón, Pez en el árbol, Labrando en Común, 2015.) nel testo “Calibano e la strega”, che mette in luce come il sistema socioeconomico capitalista sia necessariamente vincolato tanto al razzismo che al sessismo: “il capitalismo deve giustificare e mistificare le contraddizioni incorporate nelle sue relazioni sociali - la promessa di libertà a fronte di una realtà di coercizione generalizzata e la promessa di prosperità contro una realtà di penuria generalizzata - denigrando ‘la natura’ di coloro che sfrutta: donne, sudditi colonizzati, discendenti di schiavi africani, immigrati sfollati dalla globalizzazione […]. Se il capitalismo è stato capace di riprodursi, ciò è dovuto esclusivamente alla trama di disuguaglianze che ha costruito nel corpo del proletariato mondiale e alla sua capacità di globalizzare lo sfruttamento” (Federici, 2015FEDERICI, Silvia. Calibán y la bruja: mujeres, cuerpo y acumulación originaria. Puebla-Oaxaca: Tinta Limón, Pez en el árbol, Labrando en Común, 2015., p. 37).

In questo articolo colgo l’occasione di ripercorrere alcuni dei processi migratori che ho avuto l’opportunità di osservare durante gli ultimi dodici anni di ricerca, in Europa, Africa, Nordamerica e Centroamerica, tentando di recuperare alcune delle chiavi di lettura proposte da Sayad (2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002.), in “La doppia assenza”, e farle dialogare con la prospettiva critica sulla disuguaglianza di genere, offerta da Federici (2015FEDERICI, Silvia. Calibán y la bruja: mujeres, cuerpo y acumulación originaria. Puebla-Oaxaca: Tinta Limón, Pez en el árbol, Labrando en Común, 2015.) nel “Calibano e la strega”.

Propongo, quindi, di ascoltare la testimonianza di chi vive tanto in territorio di emigrazione come di immigrazione, esplicitando, al contempo, il punto di vista di chi vive e narra l’esperienza da una specifica posizione di genere. Usare il metodo di Sayad per esplorare illusioni e sofferenze di donne emigrate e immigrate, considerando, e quindi includendo nell’analisi del processo complessivo, anche soggettività di rado interpellate direttamente: donne che partono e donne che restano. Un invito a rileggere le migrazioni dal punto di vista delle donne, che significa non solo visibilizzare una storia occulta, ma anche osservare una forma specifica di sfruttamento e, pertanto, adottare una prospettiva distinta da cui riconsiderare la storia delle relazioni capitalistiche (Federici, 2015FEDERICI, Silvia. Calibán y la bruja: mujeres, cuerpo y acumulación originaria. Puebla-Oaxaca: Tinta Limón, Pez en el árbol, Labrando en Común, 2015.), così come l’esercizio del pensiero di Stato, nella costruzione complessiva del processo migratorio.

2. Sulla colpa originale e la menzogna collettiva in sistemi sociali patriarcali

Vorrei cominciare la riflessione condividendo alcune note di campo, con l’obiettivo di aprire il passo ad una prospettiva che tenga in conto anche l’altro volto dell’emigrazione in terra di origine, con le rispettive ragioni, illusioni e trasformazioni. Nel dicembre del 2014, infatti, ho avuto la possibilità di accompagnare alcuni migranti di rientro in Burkina Faso per qualche mese, dopo lunghi anni di assenza dal loro paese per difficoltà tanto economiche che di status legale. Ci eravamo conosciuti durante la stagione estiva di raccolta dei pomodori, in Basilicata, dove avevo partecipato ad una scuola di italiano, organizzata da abitanti del territorio e una rete nazionale di organizzazioni e persone solidali con le rivendicazioni dei lavoratori agricoli per ottenere condizioni di lavoro e di residenza dignitose.

Durante il viaggio condiviso, nelle comunità di origine, ho avuto modo di toccare con mano le inquietudini di una vita a cavallo tra due mondi difficilmente conciliabili. Nei villaggi rurali della provincia del Boulgou, nel sudest del Burkina Faso, ho visto l’altro volto dell’immigrazione conosciuta in Italia, cioé coloro che restano a casa: donne, bambini e anziani. Condividere oggi la potenza dialettica di alcuni scambi avuti in quell’occasione con madri, mogli e figlie di emigranti, permette di gettare un po’ di luce sulle contraddizioni esistenti all’interno di sistemi sociali rurali, sia tradizionali che coloniali, connotati da una forte gerarchia patriarcale.

Appena giunti nel villaggio di Batto, siamo stati immediatamente circondati dalle donne, impazienti di rivolgermi domande. Avevano soprattutto la necessità di sapere che fine avessero fatto i loro uomini: “perché non tornano? Ti sembra giusto che si sposano una, due o tre mogli? Si sposano e poi se ne vanno per tanto tempo! Perché non chiamano più?!” Non era tutto, continuavano: “perché non ci portano via con loro? Noi rimaniamo sole con i bambini o, peggio, alcune sono sposate e restano senza bambini, per anni…guarda, lei aspetta suo marito da più di otto anni e lei da dieci…perché? Lei è sposata da tre anni e non ha neanche un bambino da curare!”. Erano per lo più adolescenti e donne giovanissime, figlie e mogli, alcune condividevano marito, ma di fatto quasi nessuna conosceva bene il proprio uomo. Mi spiegavano che essere sposate e non avere figli da accudire costituiva per loro un grande vuoto, oltreché discredito sociale; un forte disagio che impediva di esprimere il proprio ruolo di madre e quindi di moglie; un fattore di rischio, in quanto possibile causa di abbandono o di mancate rimesse.

Le domande erano diventate rapidamente discussione accesa. Amira si era rivolta a me per spiegare meglio la situazione: “qui ci sono tanti anziani e bambini, lo vedrai, gli altri uomini sono pochi, sempre meno, e non lavorano; qui nel villaggio solo mio marito ha un lavoro suo, fa il meccanico al mercato di Boussouma, per questo io sono fortunata perché mio marito lavora, mi aiuta ed è qui con me tutte le notti. Gli altri uomini del villaggio stanno tutto il pomeriggio all’ombra, bevono té sotto quel grande albero. Noi prepariamo Tô1 1 Il Tô è un piatto tradizionale del Burkina Faso: una polenta di miglio o di mais, accompagnata con vari tipi di salse. , laviamo i panni al pozzo e portiamo l’acqua nelle case. Loro ci guardano passare quando portiamo l’acqua, ma non ci aiutano mai. Guarda dov’é il pozzo, laggiù! Sai quanto pesa l’acqua sulla testa? Loro dicono che a noi fa piacere, perché siamo abituate, ma non è vero, perché a me fa male il collo, anche quando vado a dormire e non mi fa piacere!”

Nei giorni successivi ho partecipato alle loro attività quotidiane. Ho potuto osservare come le donne, nel Boulgou, non avessero autonomia economica monetaria: non c’era lavoro per loro, se non quello domestico e contadino, ovviamente non retribuito. La comunità non era in grado di produrre tutto e, anche se in maniera ridotta, il denaro serviva comunque ad acquistare cibo e manufatti. Si sostenevano autoproducendo collettivamente pochi beni di uso quotidiano e coltivando piccoli appezzamenti di terra; alcune vivevano prevalentemente o esclusivamente grazie alle rimesse di mariti e parenti emigrati; qualcuna riusciva a produrre un po’ di denaro, un corrispettivo di pochi euro all’anno, vendendo un raccolto di cipolle al mercato del villaggio. Le rimesse dei mariti, come il numero dei figli, alimentavano spesso gelosie e invidie reciproche, che innescavano dinamiche di competizione tra donne all’interno del villaggio e, talvolta, anche nella stessa famiglia poligamica.

Giorno per giorno condividevano riflessioni e nuovi dettagli sulle loro condizioni di vita: una volta sposate erano costrette a lasciare la propria famiglia per trasferirsi presso la casa del marito e abitare nella sua comunità; in caso di problemi non era praticamente possibile separarsi, né fare ritorno alla casa di origine, senza pagare un prezzo sociale molto alto. La vergogna sarebbe ricaduta sulla propria famiglia di origine, il giudizio sociale sulla propria persona e, soprattutto, la totale assenza di autonomia economica faceva sì che non ci fossero alternative, anche in caso di forte sofferenza e violenza coniugale.

Il desiderio di fuga e di emancipazione da un destino, tendenzialmente inevitabile, di moglie e madre, me lo ha spiegato chiaramente Salimata, una quindicenne rimasta sola con la nonna e due fratelli minori, con un padre emigrato in Italia che non mandava notizie, né soldi, da molti anni. Una sera ha deciso di sottrarsi ai compiti di scuola per indagare insieme a me quale fosse la vita tipica di una ragazza della sua età in Italia, per condividere sogni e desideri. Era ferma nell’affermare di non volersi sposare nel giro di pochi anni, né diventare subito madre, come accadeva invece alla maggioranza delle ragazze della sua età nei villaggi come il suo. Secondo la tradizione, erano gli uomini, solitamente più grandi, a scegliere la moglie e chiederne la mano alla famiglia durante un incontro formale, dopo aver cercato informazioni sulla reputazione della donna. Generalmente non era previsto che la giovane donna potesse rifiutare la decisione della propria famiglia in merito alla proposta di matrimonio, né sottrarsi al destino di congiungersi con il marito fin dalla prima notte di matrimonio, e, auspicabilmente, generare una serie di figli. Salimata avrebbe invece voluto finire la scuola e continuare a studiare lingue, spostarsi a casa di uno zio, che viveva nella capitale Ouagadougou, magari un giorno viaggiare. Solo due anni dopo ricevo notizie di Salimata: aveva lasciato la scuola e cambiato villaggio perché si era sposata con un uomo molto più grande di lei, come da tradizione per le ragazze della sua età.

Sono, queste, testimonianze che suggeriscono la necessità di una riflessione estremamente complessa sullle strutture sociali delle comunità di origine, che tenga in considerazione anche l’esistenza di una gerarchia nei rapporti di genere che interagisce con le trasformazioni sociali derivate dal processo migratorio in atto. Non è possibile analizzare in questa sede l’evoluzione storica del rapporto coloniale e migratorio che lega lo specifico territorio rurale del Burkina Faso con alcune aree dell’Europa mediterranea. Dalle poche note appena condivise, però, è possibile intuire un sistema di relazioni di genere evidentemente diseguale, che articola, ed è a sua volta determinato, dal processo migratorio. Questo sistema è frutto di un incontro complesso tra differenti forme di ordine sociale. Da un lato, la sopravvivenza di usi e costumi tipici di alcune culture contadine tradizionali, basate su un’organizzazione sociale tribale a base patriarcale. Dall’altro lato, l’affermazione di un nuovo ordine patriarcale capitalista, che si sovrappone e intreccia a quello tradizionale, rafforzando una divisione sessuale del lavoro e una prevalente esclusione delle donne dal processo di emigrazione, e quindi dal lavoro salariato in terra di destino, per la loro subordinazione alla funzione principale di riproduzione della forza lavoro in terra di origine. Un continuum di rapporti di forza diseguali, capaci di alimentare illusioni, credenze e desideri di emigrazione anche nelle donne. Quelle stesse donne che, estendendo il ragionamento di Sayad (2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002.), prendono coscienza di essere state rese disponibili a sostenere l’avventura della migrazione, producendo e riproducendo, in terra di origine, nuova forza lavoro emigrante, mentre coltivano sogni di liberazione nell’eterna attesa di un riscatto sociale e di genere.

3. Della sofferenza del corpo: dalla violenza della frontiera al doppio sfruttamento

Un esempio molto chiaro di come la violenza di genere, intrinseca a sistemi sociali fortemente patriarcali, possa essere causa di emigrazione è quello delle donne e persone LGBTQIA+2 2 L’acronimo descrive la comunità di persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali. , provenienti da aree sia rurali, che metropolitane, di alcuni paesi centroamericani, in particolare Honduras, El Salvador, Guatemala e Nicaragua. Ho potuto conoscere le ragioni di emigrazione di queste persone in territorio messicano, tra ottobre 2018 e maggio 2019, partecipando alle attività di osservazione e denuncia delle violazioni dei diritti umani promosse da una rete di organizzazioni della società civile, locale e internazionale, riunite nel Colectivo de Observación y Monitoreo de Derechos Humanos en el Sureste Mexicano.

A partire dall’autunno del 2018, diversi gruppi di persone migranti, anche chiamati “carovane”, si sono susseguiti al punto da costituire un vero e proprio “esodo centroamericano”, composto da: bambini, bambine e adolescenti, accompagnati e non accompagnati; famiglie complete; donne incinte e con neonati; donne sole, con o senza figli; anziani, persone con disabilità di vario genere e malattie gravi; membri della comunità LGBTQIA+; persone vittime di persecuzioni, sopravvissute a violenze sessuali e di genere; giornalisti e difensori dei diritti umani. Il tragitto che dalla frontiera sud messicana porta alla frontiera nord statunitense è tra i più percorsi al mondo, in prevalenza attraversato da giovani uomini soli. In questo caso, invece, migliaia di persone sono uscite dall’invisibilità per formare un soggetto collettivo migrante improvvisato, determinato a procedere in gruppo per ridurre i costi e minimizzare i pericoli della rotta migratoria (Colectivo de observación y monitoreo, 2019COLECTIVO DE OBSERVACIÓN Y MONITOREO DE DERECHOS HUMANOS EN EL SURESTEMEXICANO. Informe del Monitoreo de Derechos Humanos del Éxodo Centroamericano en el Sureste Mexicano: octubre 2018-febrero 2019. 2019. Disponibile su: <Disponibile su: https://vocesmesoamericanas.org/wp-content/uploads/2019/05/InformeExodo_Final-web.pdf >. Accesso: 15.02.2024.
https://vocesmesoamericanas.org/wp-conte...
; REDODEM, 2018REDODEM. El Estado Indolente: recuento de la violencia en las rutas migratorias y perfiles de movilidad en México, Informe 2017. Servicio Jesuita a Migrantes. 2018. Disponibile su: <Disponibile su: https://redodem.org/informes/ >. Accesso: 15.02.2024.
https://redodem.org/informes/...
).

Insieme alle ragioni strutturali di fuga, legate ad un contesto generalizzato di violenza e povertà nei paesi d’origine, l’opportunità di muoversi in grandi gruppi ha generato una dinamica collettiva d’ingresso e transito nel territorio messicano, che ha fornito alle persone migranti una protezione speciale contro le operazioni delle forze dell’ordine, soprattutto della Polizia di Migrazione, nonché da incursioni di intermediari, reclutatori e funzionari corrotti, spesso legati a reti di criminalità organizzata. Il cosiddetto esodo centroamericano si é caratterizzato, quindi, per una grande complessità sociale e una composizione diversificata, alimentata dalla partecipazione di profili individuali e gruppali che solitamente emigrano con maggior difficoltà, o non emigrano proprio.

Le numerose testimonianze raccolte in quell’occasione fra le donne emigranti segnalavano principalmente violenze fisiche e psicologiche subite all’interno del nucleo famigliare o della coppia: aggressioni, stupri, controllo, minacce e ritorsioni ricevute dai propri partners, spesso, ma non solo, in condizioni di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti e abuso di alcol. Adolescenti e giovani donne fuggivano dalle attenzioni ricevute da componenti di maras e pandillas, gruppi criminali che controllano i quartieri metropolitani delle principali città centroamericane. “Quando un capo pandilla ti mette gli occhi addosso allora puoi solo scappare, perché se tu non vuoi stare con lui, o ti prende con la forza o si vendica per il disonore ricevuto: se lui ti vuole non è previsto che tu dica no”, mi racconta Juana in un accampamento improvvisato a Tijuana. La diciannovenne salvadoregna attende nella speranza di oltrepassare la frontiera con gli Stati Uniti, insieme al fratello minorenne, dopo aver ricevuto le avances di un giovane pandillero del suo quartiere a San Salvador.

L’emigrazione dalle comunità di origine, che sia per ragioni di violenza, squilibrio di potere nei rapporti di genere o per altri innumerevoli motivi, per esempio di lavoro, non garantisce certo un viaggio immune da aggressioni, né un approdo in società libere da strutture patriarcali. Nei paesi di destino, anzi, posssono essere esercitate varie forme di discriminazione e dominio, con condizioni di vita e di lavoro specifiche in base al genere e all’orientamento sessuale delle persone immigrate.

Durante il tragitto, sia che esso avvenga in carovana oppure con modalità più tradizionali di spostamento individuale o in piccoli gruppi, il corpo della donna e di persone LGBTQIA+ è costantemente esposto a problemi e rischi aggiuntivi, rispetto allo stress fisico e mentale a cui sono comunque sottoposte le persone migranti.

Infatti, sebbene camminare insieme, in carovana, abbia costituito un’occasione per ridurre costi, tempi e pericoli del viaggio in territorio messicano; d’altro canto, l’elevata concentrazione di persone, di diversa origine e genere, ha rappresentato terreno fertile per situazioni di tensione interna legata alla differente provenienza, nonché a episodi di molestia e violenza sessuale contro donne, adulte e adolescenti, così come persone della comunità LGBTQIA+. Inoltre, queste ultime sono esposte in ogni caso a un insieme di rischi legati alla salute sessuale e riproduttiva, per la difficoltà di accesso ai servizi sanitari e alla prevenzione di gravidanze, tanto volontarie come involontarie, o di malattie sessualmente trasmissibili.

In generale, è estremamente elevata la probabilità di subire aggressioni sessuali da parte di componenti della polizia di frontiera e militari, della criminalità organizzata, da compagni di viaggio, famigliari, colleghi di lavoro e non solo. Anche il caso di rapimento, durante il processo migratorio, per finalità di tratta e sfruttamento sessuale, è fortemente caratterizzato dal genere. Il rischio di violenza sessuale, tanto effettivo che percepito, è così alto da costituire un elemento dissuasivo per molte donne che vorrebbero lasciare il proprio paese, ma che finalmente desistono dal progetto, o al punto che assumere farmaci anticoncezionali prima di intraprendere il viaggio costitusce una pratica diffusa tra le giovani centroamericane che si vedono comunque forzate a partire (Robles, 2012ROBLES, Arantxa. México, Frontera Sur: mujeres migrantes y derechos humanos. Dilemata, n.10, p. 367-374, 2012.).

Una volta raggiunti i territori di destino, attraverso differenti dispositivi di controllo e di reclutamento, le persone di differente provenienza vivono condizioni di vita, residenza e lavoro che possono essere distinte in base al genere. L’esperienza vissuta da lavoratrici agricole immigrate, impiegate nelle raccolte di frutta e verdura in differenti aree del mondo, costituisce un caso eclatante di come il corpo della donna, in terra di “accoglienza”, possa essere sottoposto a una doppia dimensione di sfruttamento.

Nelle ricerche che ho realizzato, tra gli anni 2016 e 2017, intorno allo sviluppo del modello agricolo californiano e il suo impatto sulle condizioni di lavoro agricolo, svolto da persone provenienti da comunità indigene del sud e del centro del Messico, ho potuto verificare come nel caso delle donne, allo sfruttamento lavorativo possano aggiungersi anche esperienze di abuso psicologico, molestia e violenza sessuale. La ricerca sul campo si è svolta nell’area agricola di Oxnard, in California (Stati Uniti), e di San Quintin, in Bassa California (Messico). In entrambi i territori è emerso che le trasformazioni produttive legate alla diffusione del modello californiano hanno determinato una riconfigurazione del sistema del lavoro, caratterizzato da ritmi di lavoro accelerati, giornate molto lunghe e contrazione salariale (Garrapa, 2020GARRAPA, Anna Mary. Globalización desde arriba y desde abajo en el Valle de San Quintín, en Oxnard y en otros territorios de producción fresera. Migraciones Internacionales, n. 11, p. 1-23, 2020.). In entrambi i casi si è verificata una progressiva concentrazione economica degli attori produttivi, che ha promosso lo sviluppo di un complesso sistema di intermediazione, necessario a gestire il gran numero di persone impiegate contemporaneamente in diverse squadre. È proprio tramite questo sistema gerarchico di intermediazione che si perpetuano i casi di abuso di potere, denunciati da sindacati e organizzazioni sociali attive sul territorio (CAUSE, 2015CAUSE. Raising Up Farm Workers Ventura County, September 2015. 2015. Disponibile su: <Disponibile su: https://causenow.org/sites/default/files/CAUSE%20Raising%20Up%20Farm%20Workers%20Ventura%20County%20September%202015%20(2).pdf >. Accesso: 15.02.2024.
https://causenow.org/sites/default/files...
), che si esprimono soprattutto tramite molestie sessuali nei confronti delle lavoratrici e atteggiamenti razzisti con chi ha origini indigene.

Tali condizioni sono state denunciate anche in Italia, Spagna e Marocco, paesi esportatori di ortaggi e frutta in Europa e nel mondo, dove emerge una specificità di trattamento basata sul genere già a partire dalla fase di reclutamento, sia che esso avvenga con processi istituzionali che attraverso reti di intermediazione illecita. Un caso eclatante, trattato da varie autrici (Hellio, 2016HELLIO, Emmanuelle. They know that you’ll leave, like a dog moving onto the next bin’: Undocumented male and seasonal contracted female workers in the agricultural labour market of Huelva, Spain. In: CORRADO, Alessandra; DE CASTRO, Carlos; PERROTTA, Domenico (orgs.). Migration and agriculture: mobility and change in the Mediterranean area. New York: Routledge, 2016, p. 198-216.; Prandi, 2018PRANDI, Stefania. Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. Cagli: Settenove edizioni, 2018.), è quello del programma di Contratación en origen, implementato dalla Spagna, a partire dal 1999, per compensare la mancanza di manodopera agricola contrattando personale direttamente da altri paesi. Molte donne sono state reclutate da Romania, Polonia e poi Marocco, tendenzialmente giovani e rigorosamente spostate e madri, da impiegare come raccoglitrici stagionali nelle serre di varie località anadaluse. Impossibilitate a prolungare la permanenza oltre al termine stabilito dal contratto stagionale, proprio in virtù delle responsabilità famigliari, le giovani donne costituiscono quella figura sociale che meglio di altre incarna la seducente illusione del “provvisorio che dura” (Sayad, 2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002., p. 388). Una “continua rotazione”, che, secondo Sayad, rassicura tanto le comunità di origine che i paesi di destino. In realtà alcune donne vengono richiamate dallo stesso datore di lavoro anche per dieci anni di fila, purché non partecipino a rivendicazioni e proteste. Secondo le testimonianze raccolte tra gli agricoltori, le lavoratrici immigrate vengono quindi preferite agli uomini, in quanto dimostrano maggiore obbedienza e resistenza, sopportando meglio la sofferenza e si adattano meglio alle mansioni perché più delicate nel raccogliere la frutta. Di fatto, le braccianti sono pagate meno degli uomini e costrette a turni estenuanti, spesso ricattate e molestate sessualmente, subiscono violenze verbali e fisiche (Reigada, 2016REIGADA, Alicia. Family farms, migrant labourers and regional imbalance in global agri-food systems: on the social (un)sustainability of intensive strawberry production in Huelva (Spain). In: CORRADO, Alessandra; DE CASTRO, Carlos; PERROTTA, Domenico (orgs.). Migration and agriculture: mobility and change in the Mediterranean area. New York: Routledge, 2016, p. 95-110.).

Un contesto simile a quello appena descritto, emblematico per la gravità delle violazioni perpetrate nei confronti delle lavoratrici agricole, per lo più nordafricane e rumene, è quello della cosiddetta “fascia trasformata” di Ragusa, dove all’agricoltura tradizionale e stagionale si è sostituita la coltivazione continua di ortaggi in serra. L’area rurale, situata nel sudest siciliano, è composta da numerose aziende di piccole dimensioni, disperse sul territorio e distanti dai centri abitati, dove le lavoratrici immigrate sono costrette a vivere nei pressi delle serre. Prevalentemente donne sole, molte madri che lavorano con l’unico scopo di mandare rimesse a casa nella speranza di garantire un futuro migliore ai propri figli, vivono in un contesto marcato dall’isolamento, dalla segregazione abitativa e dalla totale dipendenza dal datore di lavoro (Sanò, Piro, 2017SANÒ, Giuliana; PIRO, Valeria. Abitare (ne) i luoghi di lavoro: il caso dei braccianti rumeni nelle serre della provincia di Ragusa. Sociologia del lavoro, n. 146, p. 40-55, 2017. ; Palumbo, Sciurba, 2015PALUMBO, Letizia; SCIURBA, Alessandra. Vulnerability to Forced Labour and Trafficking: The case of Romanian women in the agricultural sector in Sicily. Anti-Trafficking Review, n. 5, p. 1-10, 2015.). In questo scenario, la violenza è stata perpetuata per anni sul loro corpo, da parte di agricoltori e caporali, tramite innumerevoli ricatti quotidiani e durante i codiddetti “festini agricoli”: uno sfruttamento duplice per le lavoratrici, anche minorenni, costrette a prostituirsi dopo una giornata intera passata tra il calore e la contaminazione chimica delle serre. Dopo relazioni forzate e senza protezioni, coloro che restano incinte devono interrompere la gravidanza con ogni mezzo e le giovani madri, che non riescono ad abortire, sono costrette ad abbandonare i figli (L’Espresso, 2014TIZIAN, Giovanni. Inchiesta. Schiave romene, ora indagano i Carabinieri “Quante donne violentate in quei campi”. L’Espresso, 2014. Disponibile su: <Disponibile su: https://lespresso.it/c/inchieste/2014/10/22/schiave-romene-ora-indagano-i-carabinieri-quante-donne-violentate-in-quei-campi/7429 >. Accesso : 16.02.2024.
https://lespresso.it/c/inchieste/2014/10...
)3 3 Infatti, l’inchiesta pubblicata da L’Espresso nel 2014, sopra citata informa che “all’ospedale di Vittoria i medici sono tutti obiettori di coscienza”. .

Una realtà terrificante, fatta di stupri, omertà e un elevatissimo numero di aborti, su cui a fatica si è tentato di far luce tramite denunce sindacali e da parte di attori locali impegnati socialmente, ricerche accademiche, inchieste giornalistiche, indagini dei Carabinieri e interrogazioni parlamentari. In occasione di tali interrogazioni, avvenute nell’anno 2014, anche la stampa rumena si è interessata al caso e il Ministero degli Affari Esteri ha evidenziato pubblicamente la mancanza di segnalazioni da parte delle vittime. Il contesto ragusano, lungi da essere un caso straordinario e isolato al mondo, costituisce piuttosto un esempio terribilmente eclatante, ma evidentemente in continuità con quanto visto anche in Spagna, Messico e Stati Uniti. Il territorio siciliano mette quindi in luce l’esistenza di dinamiche silenziate e normalizzate di violenza sessuale e di genere perpetrata nei confronti delle lavoratrici immigrate, che possono verificarsi ripetutamente, in tempi e luoghi differenti.

4. Il lavoro riproduttivo e la continuità del carico genitoriale

Anche la responsabilità genitoriale e le attività riproduttive influiscono in maniera diversificata sulle condizioni di vita e di lavoro, a seconda del genere delle persone coinvolte nel processo migratorio.

Se per Sayad (2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002., p. 392), l’immigrazione familiare introduce una differenza di natura qualitativa, oltreché quantitativa del processo, poiché “da lavoratore l’immigrato diventa genitore”, è possibile sostenere che l’immigrata, anche se lavoratrice, difficilmente smette di essere anche genitrice.

Per trattare quest’ultimo aspetto, risulta particolarmente interessante fare riferimento al territorio di San Quintín, in Bassa California, in quanto crocevia di numerose e differenti traiettorie, di emigrazione come di immigrazione, sia stanziali che temporanee (Velasco et al., 2014VELASCO, Laura; ZLOLNISKI, Christian; COUBÈS, Marie-Laure. De jornaleros a colonos: Residencia, trabajo e identidad en el Valle de San Quintín. Tijuana: El Colegio de la Frontera Norte, 2014.). L’area costituisce, quindi, un osservatorio strategico sull’esperienza delle donne rispetto al compromesso della genitorialità in differenti contesti famigliari, come nel caso in cui il nucleo famigliare sia immigrato al completo, in situazioni in cui sia la donna a partire sola o, viceversa, il marito ad emigrare.

Raramente sono le donne a partire dalla Valle di San Quintin, per stagioni di lavoro agricolo negli Stati Uniti, tramite contratti H2-A (Garrapa, 2019______. Jornaleros agrícolas y corporaciones transnacionales en el Valle de San Quintín. Frontera norte, n. 31, p. 1-24, 2019.) con durata superiore ai tre mesi, soprattutto se già mogli e madri. Coloro che decidono di partire per periodi più lunghi, di uno o più anni, pagano il prezzo affettivo della distanza, esattamente come accade ai padri di famiglia, con la differenza che il giudizio sociale che ricade sulle donne per la decisione di affrontare un’assenza così prolungata è più duro e insinuante: madri irresponsabili che abbandonano i propri figli, donne destinate a vivere senza amore per ambizione economica, mogli che meritano di essere lasciate perché poco serie col marito. In situazioni in cui è la madre a partire per lungo tempo, il lavoro di cura famigliare ricade comunque sulle spalle di un’altra donna della famiglia, solitamente nonne o figlie maggiori.

Per le donne ormai stanziali nella Valle di San Quintin, già immigrate dalle regioni centrali e meridionali del Messico, la attività quotidiane di cura genitoriale costituiscono nella maggioranza dei casi un un limite concreto alla partenza verso gli Stati Uniti, un vincolo pressoché imprescindibile e legato a doppio filo con la dipendenza economica dal marito. In ogni caso, con o senza marito emigrato, è inevitabile assumere il carico completo della cosiddetta “doppia giornata”, da bracciante agricola e madre di una famiglia solitamente numerosa. La bracciante agricola è comunque la prima ad alzarsi dal letto per preparare la colazione e il pranzo a sacco (cosiddetto lonche) per tutti i componenti della famiglia, cominciando così con il lavoro domestico molto prima che inizi ad albeggiare. Una volta terminata la giornata di raccolta e prima di potersi finalmente lavare il sudore dei campi di dosso, si occupa dei figli, svolge faccende di casa, prepara la cena e sistema la cucina. Finite le ultime faccende di casa, svariate ore dopo il resto dei famigliari, può finalmente riposare qualche ora, prima di ricominciare la seguente doppia giornata di lavoro. Nel caso delle madri sole si aggiungono anche alcune responsabilità supplementari, legate all’amministrazione delle eventuali rimesse, spesso ricevute in maniera discontinua e saltuaria, oltre alla gestione dei lavori di costruzione della casa, in cui le risorse vengono almeno in parte investite.

La situazione appena descritta è narrata in maniera estremamente chiara ed emotiva da una lavoratrice agricola e madre di tre figli, intervistata nel 2017 nel Valle di San Quintin, dove é immigrata all’età di tredici anni insieme alla famiglia proveniente dall’area rurale di Oaxaca, nel sud del Messico. Amalia narra cosa ha implicato per lei e i suoi figli l’assenza prolungata del marito, emigrato per lavorare come raccoglitore stagionale, passando la frontiera montagnosa di Tijuana in maniera irregolare e riuscendo poi a fermarsi negli Stati Uniti per oltre quindici anni.

Se n’è andato con un grande sacrificio da parte di tutti, perché io restavo con i bambini e tutti i giorni andavo nei campi a lavorare. Mi pagavano al giorno ottanta pesos4 4 Ottanta pesos messicani corrispondono attualmente a circa quattro euro. , a quel tempo, ed era molto triste perché ogni giorno mangiavamo solo fave di un campo coltivato laggiù e i bambini non ne volevano più, ma io non potevo prendere in prestito soldi dalla bottega perché non sapevo se lui avrebbe trovato lavoro o no, né quando mi avrebbe mandato i soldi. Solo ottanta pesos, sebbene partissi alle cinque del mattino e non ritornassi prima delle cinque del pomeriggio e i bambini erano soli. Alle cinque passava l’autobus, alle tre dovevo alzarmi per preparare il pranzo per tutti e quattro, io e i miei tre figli. Quando erano in vacanza li portavo con me a lavorare perché imparassero anche loro, perché un domani gli sarebbe servito [...] quando andavano a scuola era la più grande a occuparsi di loro, doveva cambiarli e dar loro da mangiare. Poi io tornavo e lavavo i vestiti, tutto a mano, dovevo preparare da mangiare, controllare se avevano fatto i compiti e, in caso contrario, dovevo farglieli fare. Non si trattava solo di andare a lavorare nel campo, avevo un sacco di cose da fare a casa e tante volte uscivo dal campo e da lì andavo direttamente alla riunione di scuola di mio figlio con il fazzoletto da lavoro in testa... Erano cose molto difficili. Ma mi sono fatta coraggio e ho cresciuto i miei figli e anche lui ci parlava al telefono, dando loro indicazioni, perché poi magari erano lì nell’età della ribellione[…]. Considera che era lui a mandare i soldi ma ero io che li dovevo gestire, per il cibo, le spese di casa, la retta dei figli, le scarpe per la scuola, se si ammalavano, cioè dovevo risolvere tutto questo cercando di non fare debiti con nessuno e poi io ero come l’amministratrice, dovevo fare tutto in casa […] dovevo fare soldi per andare avanti e risparmiare per costruire la casa […] e quando il muratore mi diceva ‘mi servono questi materiali’ allora io pensavo ‘ah beh allora oggi non compro cibo’ o cose del genere [...] non è stato per niente facile, ci sono stati tanti momenti molto difficili! [Lavoratrice agricola immigrata, Valle di San Quintin, Marzo 2017SANÒ, Giuliana; PIRO, Valeria. Abitare (ne) i luoghi di lavoro: il caso dei braccianti rumeni nelle serre della provincia di Ragusa. Sociologia del lavoro, n. 146, p. 40-55, 2017. ]

In alcuni territori di immigrazione, una possibilità di riscatto è data dalla partecipazione alle attività di organizzazioni sociali e sindacali, create e autogestite dalle stesse persone migranti. Sebbene la partecipazione delle donne a mobilitazioni, scioperi, proteste, attività di solidarietà e mutualità, sia stata molto ampia e determinata nei territori di Oxnard e San Quintin, come ho potuto documentare tra il 2016 ed il 2017, sono ancora poche le figure femminili di rappresentanza politica e sindacale, o le organizzazioni costituite esclusivamente da lavoratrici immigrate, come nel caso di Lideres Campesinas ad Oxnard. Concludo, quindi, il testo riportando un frammento di intervista dell’allora rappresentante della sezione “Uguaglianza di genere” del Sindacato autonomo dei lavoratori agricoli SINDJA, nato nella Valle di San Quintin in seguito ad un grande sciopero realizzato, nell’anno 2015, per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro.

Una delle cose che ho scoperto, per esempio, è che la Segreteria di Sicurezza Sociale ha la responsabilità di affiliare i lavoratori e di fornire loro un asilo o un centro diurno per la cura dei bambini. Quante volte non sappiamo niente dei servizi che dovrebbe offrire lo Stato? Ci sacrifichiamo per necessità e a causa del lavoro non abbiamo tempo per indagare e nessuno viene a dircelo e allora ci sono tante lavoratrici che soffrono per far fronte a situazioni difficili con i propri figli, perché non abbiamo servizi adeguati, né asili, né assistenza sanitaria [...] perciò abbiamo ancora molto da fare come organizzazione di lavoratori, perché la maggior parte degli imprenditori non vuole che ci svegliamo da questa dura realtà, ma questo sarà proprio il nostro lavoro da ora in poi!” [Rappresentante sindacale, Valle di San Quintin, Giugno 2017SANÒ, Giuliana; PIRO, Valeria. Abitare (ne) i luoghi di lavoro: il caso dei braccianti rumeni nelle serre della provincia di Ragusa. Sociologia del lavoro, n. 146, p. 40-55, 2017. ]

5. Conclusioni

Nel presente testo ho voluto rendere omaggio all’eredità sociologica di Sayad, riprendendo parte della sua proposta metodologica per applicarla ad aspetti e componenti sociali rimaste inesplorate all’interno della sua opera, grazie al dialogo con le riflessioni critiche di Silvia Federici intorno alla storia negata delle donne nella costruzione di un sistema di relazioni sociali capitaliste e patriarcali. Integrando i contributi di entrambi, è stato possibile giungere alle seguenti conclusioni.

Divisione sessuale del lavoro e processo migratorio internazionale si articolano all’interno di una relazione coloniale e capitalista tra terre di origine e di destino, in cui sistemi sociali tradizionali si adattano e riorganizzano in base ad alcune principali dinamiche strutturali: separazione geografica e di genere, del lavoro di produzione e riproduzione all’interno di uno stesso nucleo famigliare o comunità; uso del salario, guadagnato in terra di destino, per sostenere persone non salariate e lavoro riproduttivo non retribuito, in terra di origine; svalutazione della posizione sociale delle donne e dipendenza economica dall’uomo.

Nel testo ho richiamato una serie di casi concreti al fine di esaminare i cambiamenti che possono verificarsi nella posizione sociale delle donne, sia in territorio di origine, che di transito e destino. Da tale esercizio è emerso come la disuguaglianza tra generi, quando si esprime in sistemi sociali patriarcali, possa alimentare illusioni e istinti di fuga; così come la violenza di genere possa essere causa di veri e propri processi di emigrazione. La ricerca svolta in terra di emigrazione, non solo dal punto di vista di chi parte ma anche di chi resta, evidenzia come a sostenere quella doppia assenza maschile vi sia spesso una sorta di doppia presenza, produttiva e riproduttiva, femminile: lavoratrice e madre. La divisione sessuale del lavoro riproduttivo non retribuito, domestico e di cura, realizzato dalle donne è il pilastro su cui è stato costruito lo sfruttamento dell’attività produttiva svolta dai lavoratori salariati, emigrati e immigrati.

L’eventuale emigrazione delle donne da strutture sociali fortemente patriarcali non garantisce, però, un tragitto libero da violenza, né l’accoglienza in sistemi privi di oppressione, sfruttamento e discriminazione di genere. Il corpo costituisce il principale terreno di sfruttamento e resistenza della donna, nella misura in cui viene usato e violentato da chi mette in atto lo Stato ed il patriarcato.

Sayad (2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002., p. 368) pone una domanda metodologicamente rivoluzionaria, partendo da un assunzione fondamentale: “Il fenomeno migratorio dipende stretamente dalle nostre categorie di pensiero, con le quali costruiamo e pensiamo il mondo sociale e politico. Lo si può allora pensare su scala internazionale senza le categorie del pensiero di Stato, nella sua doppia componentte di emigrazione e immigrazione […]?”.

Il pensiero critico femminista ha dimostrato come sia possibile trascendere la dicotomia tra classe e patriarcato, così come tra Stato e patriarcato: lo Stato discrimina arbitrariamente tra “nazionale” e “non-nazionale”, così come la sua violenza si esprime specificamente in base al genere e la sua ricchezza è basata su forme distinte di sfruttamento del lavoro, a seconda che sia produttivo o riproduttivo. È interessante, in questo senso, rispondere alla domanda dell’autore con un’ulteriore domanda: è possibile pensare il processo migratorio senza considerare tutte le componenti sociali che in esso partecipano e che riguardano tanto la produzione come la riproduzione del processo stesso?

Una prima risposta ce la fornisce Sayad stesso: “ogni classe di condizioni iniziali genera una classe diferente di emigrati che danno vita, nell’immigrazione, a una classe differente di immigrati. Mutilando il fenomeno migratorio di una sua parte, come si è soliti fare, finiamo per rappresentare la popolazione degli immigrati come una semplice categoria astratta e l’immigrato come un puro artefatto” (Sayad, 2002SAYAD, Abdelmalek. La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2002., p. 240). Cosicché, dopo aver osservato come la violenza della frontiera agisca in maniera specifica sul corpo delle donne, così come capitalismo e patrarcato si esprimano nell’esperienza migratoria della donna tramite doppio sfruttamento e doppia giornata di lavoro, è possibile estendere il ragionamento precedente affermando che ogni genere di condizioni iniziali produce un genere differente di persone emigrate e immigrate.

Riprendo, quindi, le parole dell’autore per rilanciare ancora oltre la sua proposta metodologica, concludo riflettendo sul fatto che soltanto la ricostruzione integrale di tutte le parti sociali, che vivono il processo migratorio in maniera differente in base alla propria caratterizzazione di genere, può rivelare il sistema completo di determinazioni che agisce prima, durante e dopo l’emigrazione.

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  • VELASCO, Laura; ZLOLNISKI, Christian; COUBÈS, Marie-Laure. De jornaleros a colonos: Residencia, trabajo e identidad en el Valle de San Quintín. Tijuana: El Colegio de la Frontera Norte, 2014.
  • 1
    Il Tô è un piatto tradizionale del Burkina Faso: una polenta di miglio o di mais, accompagnata con vari tipi di salse.
  • 2
    L’acronimo descrive la comunità di persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali.
  • 3
    Infatti, l’inchiesta pubblicata da L’Espresso nel 2014TIZIAN, Giovanni. Inchiesta. Schiave romene, ora indagano i Carabinieri “Quante donne violentate in quei campi”. L’Espresso, 2014. Disponibile su: <Disponibile su: https://lespresso.it/c/inchieste/2014/10/22/schiave-romene-ora-indagano-i-carabinieri-quante-donne-violentate-in-quei-campi/7429 >. Accesso : 16.02.2024.
    https://lespresso.it/c/inchieste/2014/10...
    , sopra citata informa che “all’ospedale di Vittoria i medici sono tutti obiettori di coscienza”.
  • 4
    Ottanta pesos messicani corrispondono attualmente a circa quattro euro.

Editori del dossier

Gustavo Dias, Gennaro Avallone

Publication Dates

  • Publication in this collection
    12 Aug 2024
  • Date of issue
    2024

History

  • Received
    20 Feb 2024
  • Accepted
    28 May 2024
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