Open-access Le cause degli errori giudiziari e i meccanismi di prevenzione e riparazione delle condanne e imputazioni ingiuste

The causes of miscarriages of justice and the mechanisms for preventing and remedying wrongful convictions and charges

Abstract

Il contributo si propone di indagare i molteplici fattori, anche di carattere istituzionale, dai quali traggono origine gli errori giudiziari considerati elementi ineludibili di ogni sistema processuale. L’opera, oltre ad analizzare l’influenza che il processo penale mediatico può determinare sul libero convincimento del giudice, esamina alcuni casi emblematici di condanne pronunciate su false confessioni, errata percezione di comunicazioni intercettate, testimonianze inaffidabili e ricognizioni scorrette senza tralasciare gli errori commessi sulla scena del crimine originati, nella maggior parte delle ipotesi, da inesperienze o disattenzioni del personale investigativo. Vengono individuati, in una prospettiva de iure condendo, i possibili rimedi finalizzati ad evitare condanne o imputazioni ingiuste o, quantomeno, a ridurre i drammatici effetti che gli errori giudiziari provocano, in via immediata e diretta, sulla sfera personale e patrimoniale della vittima di una errata amministrazione della giustizia. Infine, l’A. si sofferma sugli strumenti riparatori previsti dal sistema giuridico italiano analizzando non soltanto la loro funzione ma anche i criteri che il giudice deve considerare nella quantificazione dell’indennizzo.

Parole chiave errori giudiziari; imputazioni ingiuste; condanne ingiuste; riparazione dell’errore giudiziario; riparazione per l’ingiusta detenzione

Abstract

The paper aims to investigate the multiple factors, including institutional ones, that give rise to judicial errors originate, considered inescapable elements of any trial system. In addition to analysing the influence that the criminal process through the media can have on the judge’s free conviction, the paper examines a number of emblematic cases of unjust convictions based on false confessions, misinterpretation of intercepted communications, unreliable testimony and incorrect reconnaissance, without neglecting the errors committed at the scene of the crime, which are in most cases due to the inexperience or carelessness of investigative personnel. In a de iure condendo perspective, possible solutions are explored in order to avoid wrongful convictions or charges or, at least, to reduce the dramatic effects that judicial errors produce, in an immediate and direct way, on the personal and patrimonial sphere of the victim of a wrong justice administration. Finally, the author focuses on the reparative instruments provided by the Italian legal system, analysing not only their function but also the criteria that the judge has to consider when quantifying the compensation.

Keywords miscarriages of justice; unjust charges; wrongful convictions; compensation for miscarriage of justice; compensation for wrongful imprisonment

Sommario: Introduzione; 1. Gli errori commessi sulla scena del crimine: il sopralluogo; 2. Gli errori nell’ascolto delle intercettazioni: il caso Massaro; 3. Le distorsioni della memoria: l’oblio del ricognitore; 4. La menzogna del testimone e la declaratio contra se: il caso Gulotta; 5. Il processo mediatico e i fattori istituzionali come causa dell’errore giudiziario; 6. Gli strumenti riparativi delle imputazioni e delle condanne ingiuste; Conclusioni; Bibliografia.

Introduzione

La tradizione filosofica sostiene che ogni individuo è portato a commettere errori di ragionamento che rappresentano il frutto di una distorsione delle realtà provocata dai cosiddetti bias cognitivi2. L’origine di un errore può persino incrociarsi con lo stesso modo di essere di chi sceglie di esprimere un certo giudizio spingendosi ad immaginare come vero quel che non è ancora chiaro e distinto per l’intelletto. L’errore, dunque, è strettamente collegato alla sfera di volizione ed è considerato un elemento inevitabile di ogni azione umana che nella maggior parte dei casi non produce conseguenze o è facilmente correggibile3. Nel processo penale, invece, l’errore porta con sé conseguenze deleterie sia per la vittima incolpevole che per l’intera collettività rappresentando l’esempio tipico della fallibilità umana4. Con l’espressione errore giudiziario si fa riferimento ad un’anomalia del processo, una patologia, un risultato processuale contrario a giustizia, a causa di un elemento o di una serie di elementi che, infiltrandosi nel contesto processuale, ne alterano il fine esterno rappresentato dalla condanna del colpevole e dall’assoluzione dell’innocente5. Sull’assunto che gli errori giudiziari costituiscono un dato universale di ogni sistema processuale, e attesa l’impossibilità di eliminarli radicalmente, ciascun ordinamento, oltre a prevedere che la procedura giudiziaria possa non essere in grado di assicurare la conformità della sentenza al fine di giustizia6, ha predisposto dei meccanismi riparatori idonei a garantire un ristoro, a titolo di indennizzo o risarcimento, a chi abbia subìto una condanna ingiusta. Dopo un lungo percorso legislativo e giurisprudenziale, l’ordinamento italiano riconosce oggi la riparazione per l’ingiusta detenzione (artt. 314 e 315 c.p.p.), quale derivazione del diritto riconosciuto dall’art. 24, comma 4 della Costituzione, e la riparazione dell’errore giudiziario (artt. 643-647 c.p.p.) 7 che trova il suo fondamento normativo anche negli artt. 2 e 13 della Costituzione8. Non rientrano nell’ambito applicativo della riparazione per ingiusta detenzione (art. 314, comma 1 c.p.p.) le ipotesi di “ingiusta imputazione” a cui fa seguito una sentenza di assoluzione, perché si ritiene che solo l’erronea affermazione della responsabilità sia idonea a produrre delle conseguenze dannose per l’imputato.

Per molti anni il tema dell’errore giudiziario è stato posto ai margini del dibattito giuridico europeo e nazionale: soltanto di recente la dottrina ha posto maggiore attenzione sulle cause e sui danni cagionati dalle condanne e imputazioni ingiuste al fine di ricercare dei possibili congegni rimediali9. Sotto questo profilo appare evidente l’esigenza, attraverso l’analisi di vicende concrete, di elaborare proposte di riforma dirette ad apportare dei correttivi a taluni istituti processuali caratterizzati da maggior rischio di errore in modo da ridurre al minimo il pericolo della condanna di un innocente.

1. Gli errori commessi sulla scena del crimine: il sopralluogo

Gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria sono i primi soggetti ad intervenire sul locus commissi delicti. Il loro compito fondamentale è quello di preservare lo stato dei luoghi attraverso la raccolta di tutti gli elementi necessari per individuare il possibile autore del reato e perseguirlo. In quest’ottica, un’attenzione particolare va rivolta al sopralluogo giudiziario caratterizzato da due fasi di intervento. La prima si concretizza nel compimento di operazioni dirette a cristallizzare la scena del crimine e ad evitare la dispersione delle tracce pertinenti al reato prima dell’intervento del pubblico ministero; la seconda, cioè quella di investigazione tecnico - scientifica (comunemente chiamata di CSI - Crime scene Investigation), si sostanzia, invece, in attività più specialistiche orientate a fissare l’esatta collocazione spaziale delle tracce, a descrivere quanto percepito ed apprezzato, a ricercare tutte le tracce inerenti al reato ed, infine, a repertare quelle asportabili10. È in questa delicata fase che gli organi investigativi devono prestare la massima attenzione nella individuazione e nella raccolta delle prove, perché si corre il pericolo di perdere informazioni utili non più recuperabili in dibattimento, soprattutto se si tratta di operazioni tecniche non ripetibili, con il rischio di compromettere la direzione delle indagini e, di conseguenza, l’intero procedimento penale fino a coinvolgere attori innocenti11. La problematica principale si rinviene nella lacunosità della disciplina contenuta nell’art. 354 c.p.p. (rubricato «Accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone. Sequestro»)12, in cui comunemente vengono fatte rientrare questo tipo di operazioni, perché da un lato la norma non detta regole precise sulle modalità di svolgimento degli accertamenti13 finalizzate a garantire la genuinità dell’elemento di prova raccolto e, dall’altro, non prevede adeguate garanzie nei confronti dell’indagato14, con la conseguenza che risulta rafforzato il rischio di errore dovuto al mancato contraddittorio per la formazione della prova. In altre parole, la norma lascia ampia discrezionalità tecnica alla polizia giudiziaria, le cui operazioni sono sottratte da ogni tipo di controllo giurisdizionale con il conseguente potenziamento del rischio di inquinamento probatorio dovuto alla scarsa preparazione tecnica degli agenti ovvero ad un accesso incontrollato di persone sul luogo del delitto, idoneo ad alterare irrimediabilmente la scena del crimine15. Certo è che, pur mancando indicazioni normative da seguire durante la ricerca degli elementi di prova, operare sulla scena del crimine senza lasciare alcuna traccia è un’impresa piuttosto ardua e di conseguenza non può essere escluso, nella maniera più assoluta, il pericolo di contaminazione o alterazione del materiale probatorio16; materiale che può, addirittura, rappresentare il presupposto per l’applicazione di una misura cautelare con il pericolo che si verifichi una ipotesi di ingiusta detenzione. È quanto avvenuto nel noto processo per l’omicidio della studentessa Meredith Kercher (v. infra, pf. 6), in cui il sopralluogo effettuato è risultato inadeguato perché, durante il primo accesso al luogo del delitto, gli operatori non hanno dato importanza al rilevamento del gancetto di chiusura del reggiseno appartenente alla vittima che è stato repertato ben 46 giorni dopo l’omicidio in una condizione di altissima contaminazione ambientale. Ciò nonostante, a seguito della perizia effettuata sulle tracce genetiche presenti sull’oggetto17, la Corte d’assise di Perugia ha condannato Raffaele Sollecito a 25 anni di reclusione. Dopo otto anni di processi e un alternarsi di condanne e assoluzioni la Corte di Cassazione, sull’assunto che l’inquinamento probatorio era dimostrato «dal modo in cui il gancetto era stato trattato, con il passaggio di mano in mano da persone che indossavano guanti di lattice sporchi»18, ha annullato senza rinvio la condanna ritenendo che l’esiguità dei reperti biologici a disposizione non avrebbe potuto comunque garantire l’acquisizione di nuovi e determinanti dati istruttori, sicché il giudice del rinvio non avrebbe potuto accertare la colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio quale presupposto per la pronuncia di una sentenza di condanna19.

La probabilità di commettere errori umani aumenta al crescere del numero dei soggetti che intervengono sulla scena del crimine, i quali, spesso, sono inconsapevoli di trovarsi sul luogo di un reato. Tale situazione può essere determinata, ad esempio, dal primo intervento del personale medico e paramedico, quando opera con l’obiettivo di salvare vite senza le cautele e protezioni necessarie per la salvaguardia delle fonti di prova. Una situazione simile si è verificata nel noto caso dell’omicidio di Melania Rea sul cui corpo è stato ritrovato un capello, poi ritenuto non appartenere alla vittima ma al medico legale che ha operato i primi rilievi sul cadavere. Sempre nella medesima vicenda sono state ritrovate due perline all’interno della busta contenente le scarpe della donna repertate dalla polizia scientifica; successivamente si è ritenuto potesse trattarsi di un elemento decorativo dell’abbigliamento di una delle tante persone presenti sul luogo del crimine. Per qualche istante, questi elementi di prova hanno suggerito nuove piste investigative fino ad ipotizzare che a commettere il delitto fosse stata una donna20.

Attualmente le uniche normative di riferimento per la conduzione delle attività sulla scena del crimine sono rappresentate, oltre che dai protocolli interni al corpo di appartenenza degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria incaricati delle indagini, dalle linee guida internazionali ISO/IEC 1702021 e 1702522. In questa prospettiva, al fine di elevare al massimo gli standard di qualità delle indagini sulla scena criminis, l’Enfsi (European network of forensics science)23 ha formato un gruppo di lavoro che ha elaborato un manuale di buona pratica24 nel quale vengono descritte le procedure da seguire nel processo di intervento sulla scena del crimine per evitare la contaminazione e garantire la corretta conservazione di tracce e reperti. Il mancato rispetto delle linee guida internazionali, però, non determina la inutilizzabilità delle prove raccolte - e di questo è consapevole anche la giurisprudenza25 - ma può soltanto indebolire l’attendibilità del dato e giustificare la sua estromissione dal materiale probatorio su cui fondare la decisione. Dunque, al fine di risolvere le problematiche che si nascondono all’interno del processo di raccolta degli elementi di prova, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore finalizzato alla codificazione di regole precise e chiare dirette ad imporre una serie di obblighi di diligenza a coloro che per primi intervengono sulla scena del crimine ed il cui mancato rispetto sia non soltanto fonte di responsabilità disciplinare degli agenti, ma anche causa di inutilizzabilità del dato probatorio acquisito. Tali regole potrebbero essere raccolte all’interno di un vero e proprio codice delle investigazioni forensi in modo da assicurare una maggiore sistematicità e organicità all’intera materia. Una riduzione del rischio di errore potrebbe essere realizzata altresì tramite l’attivazione di corsi di formazione specializzati ovvero attraverso un miglioramento delle attrezzature e dei mezzi in dotazione del personale operante26. Infine, sarebbe utile elaborare ulteriori linee guida affinché tutti i soggetti presenti a vario titolo sulla scena criminis si attivino e lavorino in sinergia apportando ciascuno il proprio sapere scientifico, perché solo lavorando in gruppo risulta più difficile che si formino idee preconcette che sono quelle che portano l’investigatore a vedere tutti gli indizi e le prove sotto la luce della propria ipotesi investigativa tralasciando le altre.

2. Gli errori nell’ascolto delle intercettazioni: il caso Massaro

Nelle indagini preliminari possono sorgere ulteriori margini di errore qualora gli agenti di polizia giudiziaria siano chiamati a trascrivere quanto captato attraverso le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (artt. 266 ss. c.p.p.). Questo mezzo di ricerca della prova presenta particolari insidie poiché non sempre risulta possibile comprendere chiaramente ciò che gli interlocutori si dicono. Basti pensare alle ipotesi in cui i parlanti utilizzano un linguaggio criptico o dialettale o ai casi in cui la qualità della registrazione sia particolarmente scarsa. A ciò si aggiungono ulteriori fattori tra i quali rileva la inadeguata competenza tecnica degli agenti di polizia giudiziaria chiamati a redigere i c.d. “brogliacci d’ascolto” (art. 268, comma 2 c.p.p.); attività che, secondo la dottrina, richiederebbe una preparazione multidisciplinare e non essere limitata all’ambito prettamente investigativo27. Nonostante siano stati elaborati dei criteri ai quali gli inquirenti devono attenersi nell’interpretazione delle comunicazioni intercettate28, viene rimesso al giudice il compito di vagliare il contenuto della comunicazione attraverso riscontri esterni, soprattutto se sussiste una ambiguità circa il reale significato da attribuire alle parole.

La questione può essere meglio compresa se si analizza la vicenda processuale che ha coinvolto Angelo Massaro, accusato di omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere e condannato, successivamente, dalla Corte d’assise di Taranto, a ventun anni di reclusione a causa di un errata comprensione di un’intercettazione telefonica non valutata correttamente dal giudice di merito. Una parola in dialetto, pronunciata durante una telefonata, diventa la regina delle prove, che conduce il collegio giudicante ad emettere sentenza di condanna pur mancando il riscontro dei caratteri della chiarezza, decifrabilità dei significati e assenza di ambiguità. Una settimana dopo l’omicidio, parlando al telefono con la moglie, l’imputato aveva detto in dialetto tengo stu muers, intendeva che stesse trainando un oggetto ingombrante attaccato al gancio della sua autovettura. Gli inquirenti, invece, pensarono che stesse trasportando il muert, (così risulta nelle trascrizioni) cioè il corpo della vittima per occultarlo.

L’origine dell’errore che ha portato all’ingiusta condanna si collocava, evidentemente, nella fase delle indagini preliminari, nel momento in cui è stata acquisita l’intercettazione; il travisamento di una parola ha legittimato, dapprima, l’applicazione della custodia cautelare in carcere29 e, successivamente, nonostante le obiezioni difensive, la condanna30. Soltanto dopo ventisei anni, a seguito del processo di revisione, la Corte d’appello di Catanzaro ha assolto il Massaro da ogni accusa31 ritenendolo totalmente estraneo ai fatti sulla base di nuovi elementi di prova presentati dalla difesa che hanno dimostrato che il Massaro, il giorno dell’omicidio, si trovava altrove32.

A parere di chi scrive, nei casi di dubbia intellegibilità del dato fonico sarebbe opportuno che gli agenti di polizia giudiziaria si astenessero dal trascrivere una propria supposizione, mentre sarebbe preferibile indicare le varie alternative, a maggior ragione quando il parlato è in dialetto o in lingua straniera. Orbene, anche nell’ambito delle intercettazioni si corre il rischio di generare errori giudiziari gravi e, dunque, appare sempre più evidente la necessità di un intervento in materia, magari attraverso la creazione di un albo ufficiale degli esperti che certifichi il possesso di specifiche competenze tecniche e psicolinguistiche in modo da garantire una maggiore affidabilità nella comprensione e trascrizione di quanto captato.

3. Le distorsioni della memoria: l’oblio del ricognitore

Il tema dell’errore giudiziario è strettamente collegato alla ricognizione, tipico mezzo di prova con il quale un soggetto esprime un giudizio di identità comparando persone, suoni o cose consimili33 (artt. 213 ss. c.p.p.). Si stima che circa il 72% delle condanne basate prevalentemente sulla ricognizione personale abbiano dato vita ad un errore giudiziario certo e, ancor prima, ad ingiuste detenzioni 34.

Nel procedimento di ricognizione vengono in rilievo una serie di variabili che possono incidere sul processo mentale del ricognitore contaminando negativamente il suo ricordo35. Tra questi fattori di rischio assumono particolare rilevanza le condizioni ambientali quali gli ostacoli visivi, la luce, la distanza e la posizione in cui è avvenuta la percezione dell’azione criminosa36, nonché le capacità mnemoniche del testimone e la durata del tempo di osservazione37. Nei delitti commessi con l’uso di armi, poi, si verifica spesso quel fenomeno che la psicologia giudiziaria definisce effetto arma38 in virtù del quale l’osservazione del ricognitore viene rivolta esclusivamente al mezzo offensivo impiegato, con la conseguenza che il testimone, ansioso e timoroso, è portato a trascurare i tratti somatici dell’aggressore. Un altro fenomeno non marginale è l’effetto razza di appartenenza che rende più difficile la ricognizione qualora il soggetto da riconoscere appartenga ad un gruppo etnico diverso da quello del ricognitore con l’effetto di ostacolare il riconoscimento delle differenze individuali39. In altri casi, il contatto stretto con l’autorità suscita nel ricognitore sentimenti ambivalenti che possono portarlo ad indicare a tutti i costi uno dei soggetti sottoposti alla sua attenzione pur di allinearsi a ciò che pensa si attenda il giudice che gli sta di fronte (cosiddetto effetto yes)40.

Più complessa è l’ipotesi in cui il ricognitore ha già partecipato ad un atto di individuazione, ex art. 361 c.p.p., o ha successivamente avvistato, anche in fotografia, il soggetto da riconoscere. In questi casi, l’esito dell’operazione probatoria è, sotto il profilo psicologico, irrimediabilmente compromesso: il precedente ricordo, sedimentatosi nella memoria, infatti, si integrerà con quello posteriore fino al punto da sovrapporsi all’immagine successiva, sulla quale ormai fa leva il riconoscimento41 con conseguente riduzione del suo grado di attendibilità42.

Uno dei casi più eclatanti, che ha anche portato alla condanna dell’Italia da parte della Corte EDU43 per violazione dell’art. 6 Cedu, riguarda la vicenda di un soggetto accusato di aver ucciso un cittadino italiano e ferito un cittadino albanese. Il presunto responsabile è stato arrestato a seguito dell’assunzione di informazioni rese dal superstite dell’agguato, che lo ha indicato come colui che aveva sparato dopo averlo individuato, ex art. 361 c.p.p., in alcune foto segnaletiche. A seguito dell’arresto, l’indagato ha chiesto la fissazione di un incidente probatorio al fine di procedere all’audizione del testimone, che aveva manifestato più volte la volontà di tornare in Albania, ed alla ricognizione personale. Tale richiesta è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari e, nel frattempo, il testimone, recatosi in Albania per un periodo di vacanze, si è reso irreperibile. Rinviato a giudizio dinanzi alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere per omicidio, tentato omicidio e porto abusivo di armi, con l’aggravante di aver agito per favorire un’organizzazione criminale di tipo mafioso, l’imputato è stato assolto per non aver commesso il fatto con sentenza dell’8 marzo 200444. In applicazione degli artt. 111 Costituzione e 526 c.p.p., la Corte d’Assise ha ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni del ricognitore acquisite durante le indagini preliminari in quanto il cittadino albanese si era volontariamente sottratto all’esame dei difensori dell’imputato. Con sentenza del 3 novembre 2005, invece, la Corte d’Assise d’Appello di Napoli ha ritenuto non provata la volontà del teste di sottrarsi all’esame, in aggiunta alla contraddittorietà delle dichiarazioni rese dai testimoni a discarico e alla non coerenza e persuasività dell’alibi fornito, e ha condannato il ricorrente alla pena dell’ergastolo45. Avverso tale sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione, respinto dalla Suprema Corte che ha valutato logicamente e correttamente motivata la decisione impugnata46.

Come si può notare, il giudice di seconde cure, data l’impossibilità di espletare la ricognizione in sede dibattimentale (art. 213 ss. c.p.p.) per irreperibilità del testimone, ha pronunciato sentenza di condanna basandola esclusivamente e in maniera determinante su una prova dichiarativa rispetto alla quale non era stato assicurato il diritto dell’imputato al confronto. A seguito di un alternarsi di istanze di revisione e dopo ben otto anni di carcere la Corte d’Appello di Firenze47 ha revocato la sentenza di condanna e ha assolto l’imputato per non aver commesso il fatto perché la vittima - ricognitore durante il processo di revisione ha dichiarato di non riconoscere l’imputato48.

In questo contesto la predisposizione di meccanismi di prevenzione dell’errore rappresenta una esigenza tanto importante quanto difficile da soddisfare poiché risulta complicato intervenire su fattori psicologici e sulle capacità di percezione di una persona49. Tali difficoltà potrebbero essere superate attraverso l’introduzione di meccanismi che siano in grado di garantire la neutralità psichica del ricognitore liberando la sua mente da pregiudizi e false aspettative. Per realizzare tale obiettivo è auspicabile un intervento del legislatore che preveda, nella fase preliminare della procedura, specifici obblighi a carico di colui che è chiamato a condurre l’esperimento. Per esempio, quest’ultimo dovrebbe istruire il testimone informandolo che il colpevole potrebbe non essere tra le persone presentate; rassicurarlo che anch’egli è ignaro dell’identità del soggetto da riconoscere, ciò per evitare un eventuale passaggio involontario di informazioni; nella scelta dei distrattori dovrebbero essere preferiti coloro che più si avvicinano alla descrizione fisica fornita dal ricognitore e, infine, l’attività svolta dovrebbe essere videoregistrata in modo da scoraggiare l’utilizzo di tecniche di ricognizione scorrette. Sotto quest’ultimo profilo risultano condivisibili i principi e i criteri direttivi contenuti nella legge delega 134 del 2021 – cosiddetta riforma Cartabia - che attribuiscono al legislatore delegato il compito di «prevedere la registrazione audiovisiva come ulteriore strumento di documentazione dell’interrogatorio e della prova dichiarativa nonché di individuare i casi in cui debba essere prevista almeno l’audioregistrazione dell’assunzione di informazioni dalle persone informate sui fatti»50. Si potrebbe immaginare l’introduzione di una causa di invalidità affinché siano colpiti da nullità o inutilizzabilità tutti gli atti compiuti in violazione degli obblighi suddetti. Oppure, a garanzia del contraddittorio e della attendibilità del risultato probatorio, sarebbe auspicabile un ampliamento delle ipotesi di incidente probatorio, anche nella sua forma atipica in modo da sganciare l’atto ricognitivo dal requisito delle particolari ragioni di urgenza (art. 392, comma 1, lett. g)) e rendere più snella la procedura. Così facendo, si assicura un controllo giurisdizionale preliminare qualora l’esito del riconoscimento assuma rilevanza determinante in sede dibattimentale.

4. La menzogna del testimone e la declaratio contra se: il caso Gulotta

Diversamente dalla memoria di riconoscimento, la memoria evocativa è caratterizzata da maggiore instabilità che provoca un aumento della probabilità che il testimone renda una dichiarazione volta a fornire una ricostruzione fattuale divergente dalla realtà51. Anche in tale ambito, diversi sono i fattori che incidono sulla veridicità della deposizione testimoniale. Già a livello di percezione del fatto possono riscontrarsi i primi errori mentali, legati sia alla limitata capacità del cervello umano di raccogliere contemporaneamente una rilevante quantità di stimoli dall’ambiente esterno, sia alle pregresse conoscenze o pregiudizi che inevitabilmente influiscono sulla nostra conoscenza52. Negli ultimi tempi, inoltre, «si assiste ad un notevole affievolimento di sensibilità nei confronti del dovere morale di rendere una corretta testimonianza, stante il prevalere di sentimenti egoistici che vedono in detta funzione solo un inutile fastidio»53. Infatti, capita spesso che nei testimoni prevalga il desiderio di sfuggire dall’intera vicenda processuale limitandosi a rispondere alle domande formulate dalle parti con espressioni del tipo non ricordo o non ho visto54.

Più complesso è il fenomeno della falsa confessione55 che costituisce una delle cause di errore giudiziario più difficili da identificare, stante l’estrema difficoltà di saper distinguere fra dichiarazioni false e dichiarazioni veritiere. Un soggetto può essere spinto a dichiararsi colpevole di un reato che non ha mai commesso per diverse ragioni. Queste possono trovare la loro origine da fattori estranei al processo, per esempio la persona che si autoaccusa è affetta da patologie mentali, è incapace di distinguere la realtà dalla fantasia, cerca di costruirsi un alibi per un reato più grave oppure intende proteggere una persona cara56. Questa ultima ipotesi si è verificata nel processo per l’omicidio di Sarah Scazzi in cui lo zio Michele Misseri, dopo la scoperta del corpo, ha confessato di averla uccisa e di aver occultato il cadavere. Il continuo scambio di autoaccuse e smentite57 nel corso del processo ha condotto la Corte d’assise di Taranto58 a ritenere inattendibili le dichiarazioni etero-accusatorie rese dall’imputato perché contrastate da altre risultanze probatorie ed è stato provato che il Misseri ha falsamente confessato di essere l’autore del crimine al solo scopo di depistare le indagini e sottrarre la moglie e la figlia alla responsabilità dell’omicidio, queste ultime poi condannate in via definitiva alla pena dell’ergastolo in quanto ritenute le uniche esecutrici materiali del delitto59. A tal proposito, è bene precisare che nel processo penale non vige un sistema di prove legali e, quindi, la confessione potrebbe essere posta a fondamento del giudizio di colpevolezza soltanto nelle ipotesi in cui il giudice, in concreto, ne apprezza favorevolmente la veridicità, la genuinità e l’attendibilità, fornendo le ragioni per cui sia da respingersi ogni sospetto di intento autocalunnatorio o di intervenuta costrizione del soggetto60. All’esito del giudizio di valutazione, seppur dovesse essere provata la veridicità della dichiarazione contra se, non appare configurabile alcun tipo di vincolatività da parte del giudice in quanto la confessione, al pari degli altri mezzi probatori, soggiace al principio del libero convincimento.A livello processuale, invece, le cause che spingono un soggetto ad autoaccusarsi derivano nella maggior parte dei casi dai metodi coercitivi adottati dalle forze dell’ordine durante un interrogatorio. A riprova di ciò uno dei casi più gravi di condanna ingiusta, fondata non solo su una falsa confessione, ma anche su una falsa chiamata in correità, riguarda la vicenda che ha visto coinvolto Giuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo per concorso in duplice omicidio aggravato. Una breve ricostruzione dei fatti contribuirà a valutare la pericolosità che si cela dietro una falsa confessione.

Nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1976, un commando fece irruzione nella stazione dei Carabinieri di Alcamo Marina uccidendo due militari. Nella stessa notte, a un posto di blocco, fu fermato uno dei reali autori del reato che, dopo un lungo interrogatorio effettuato dalla polizia giudiziaria, ammise il suo ruolo nel duplice omicidio chiamando in correità alcuni suoi amici, tra i quali Giuseppe Gulotta61. Questi ultimi furono fermati e sottoposti anch’essi ad interrogatorio da parte degli operatori di polizia giudiziaria confessando di aver preso parte all’eccidio. Successivamente, dinanzi al magistrato tutti gli indagati hanno ritrattato le precedenti dichiarazioni, spiegando di aver subìto maltrattamenti da parte degli investigatori. All’esito delle indagini, il giudice istruttore ha emesso ordinanza di rinvio a giudizio che ha portato, in primo grado, all’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove e per l’irregolarità del comportamento degli investigatori che non misero subito gli indagati a disposizione dell’autorità giudiziaria causando una limitazione della loro libertà di determinazione62. Il giudice di prime cure, inoltre, ha riconosciuto la centralità dei maltrattamenti subìti dagli indagati e, sebbene in un separato procedimento gli agenti siano stati prosciolti dalle accuse rivoltegli, ha ritenuto che la situazione anomala in cui si sono formate le prove abbia inciso sull’accertamento della responsabilità degli imputati. A seguito del ricorso presentato dall’accusa, la Corte d’assise d’appello di Palermo ha ribaltato completamente la decisione del giudice di primo grado e ha affermato la penale responsabilità degli imputati sull’assunto che il racconto delle violenze subìte avesse rappresentato per gli stessi uno stratagemma finalizzato a precostituirsi una difesa. Dopo due anni, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di condanna ponendo in dubbio la genuinità della chiamata in correità63 ma, nonostante questi rilievi, il giudice del rinvio ha confermato la condanna all’ergastolo di Giuseppe Gulotta.

La vicenda giudiziaria in esame ha avuto una svolta soltanto nel 2008 grazie alle dichiarazioni rese da uno degli agenti che trent’anni anni prima aveva partecipato alle indagini, il quale ha raccontato quanto realmente accaduto al Procuratore della Repubblica di Trapani. Di fronte a questo nuovo elemento i difensori hanno presentato istanza di revisione, che ha portato alla revoca della sentenza di condanna per Gulotta in quanto la sua dichiarazione autoaccusatoria è stata ritenuta poco credibile e non coincidente con la dinamica dei fatti64. È stato provato, infatti, che gli imputati hanno subìto delle vere e proprie torture ad opera degli agenti e che, dunque, i giudici di merito si sono trovati a decidere sulla base di dichiarazioni ottenute illegittimamente ed estorte con la violenza65.

In quest’ottica, nonostante la tecnologia offra diversi strumenti in grado di identificare la potenziale bugia66, risulta impossibile, anche per gli operatori giudiziari più esperti, sfuggire all’inganno ed avere certezza sulla genuinità o meno di una dichiarazione. Ed allora, una delle possibili soluzioni finalizzate ad impedire che le false confessioni portino ad una condanna ingiusta è quella di introdurre, in via generale, un obbligo di videoregistrazione degli interrogatori67così come previsto dall’art. 141 bis c.p.p. per coloro che si trovino a qualsiasi titolo in stato detentivo, e sempreché l’interrogatorio non si svolga in udienza. L’ iniziativa in tal senso è già stata assunta con la legge delega di riforma del processo penale (riforma Cartabia)68. A beneficio degli innocenti, si verrebbe a creare un deterrente contro tecniche improprie o coercitive; a favore delle forze dell’ordine, invece, non solo si ridurrebbero le controversie su come l’agente si sia comportato o abbia trattato un indagato ma, sul presupposto di una futura utilizzabilità del filmato in sede dibattimentale, qualora si ravvisi la necessità di valutare l’attendibilità del dichiarante, si permetterebbe a coloro che conducono l’esame di concentrarsi maggiormente sull’intervista che risulterà più dettagliata e ciò consentirà anche al pubblico ministero di formulare una imputazione corretta.

Per quanto riguarda la falsa testimonianza risulta interessante dare atto di un recente studio relativo all’ingresso nel sistema giudiziario italiano di una nuova tecnica di eye-tracking: la cosiddetta pupillometria. Si tratta di un meccanismo in grado di rilevare i segnali della menzogna in base al numero di movimenti oculari e alla dilatazione pupillare di una persona69. Pur essendo apprezzabili gli sforzi effettuati in tale ambito, diversamente da quanto sostiene parte della dottrina70, ammettere l’operatività di un simile strumento nel processo penale porrebbe dei dubbi di compatibilità con la disposizione di cui all’art. 188 c.p.p. Invero, la sorveglianza ininterrotta del testimone, chiamato a rendere dichiarazioni in presenza di un dispositivo posizionatogli di fronte per il conteggio dei movimenti pupillari, con molta probabilità determinerebbe un condizionamento della sua psiche, soprattutto se si tratta di soggetto particolarmente ansioso, con il rischio di comprimere la sua libertà di autodeterminazione e di ottenere, così, un risultato inattendibile.

5. Il processo mediatico e i fattori istituzionali come causa dell’errore giudiziario

Le interazioni tra mezzi di informazione e processo penale condizionano inevitabilmente gli organi giurisdizionali, incidendo negativamente sull’esercizio del diritto di difesa fino a coinvolgere numerosi equilibri tra i diversi valori in gioco71. Nuocendo all’imputato e alla giustizia, l’uso mediatico del processo si pone, a pieno titolo, tra le cause dell’errore giudiziario72 dando vita a pericolose forme di giustizia emozionale73. Infatti, la rappresentazione mediatica di vicende giudiziarie, insinuando verità alternative e dubbi interpretativi, svelando scenari nascosti può portare il giudicante ad assumere una decisione non scevra da pregiudizi ovvero può, nel confronto di opinioni tecnico-scientifiche, condizionare il convincimento dei giudici popolari di un reato di competenza della Corte d’assise74.

Quando si celebra un processo che, secondo i mass media, ha già un colpevole - diversamente da quanto sostenuto dalla Cassazione in più occasioni75- vi è un sicuro effetto condizionante sul libero convincimento del giudice76. In questo caso si arriva al paradosso che i processi svolti nel pieno rispetto delle regole processuali vengano percepiti dall’opinione pubblica come esempi di errore giudiziario, dando vita ad istanze di revisione del tutto infondate. In altri casi, invece, qualora l’autorità giudiziaria assuma una decisione contrastante rispetto al convincimento che si è raggiunto nei salotti televisivi, parte una ulteriore campagna mediatica volta ad additare il giudice come nemico della verità e della volontà popolare77. Più rischiosa è l’ipotesi in cui gli inquirenti, influenzati dal convincimento comune, si innamorano di una tesi indirizzando le indagini verso un unico soggetto, cioè colui che è già stato giudicato come colpevole dall’opinione pubblica, perdendo di vista, consapevolmente o inconsciamente, le altre possibili piste investigative (tunnel vision)78.

Tra gli esempi più significativi di influenza mediatica all’interno del processo penale certamente rientra la vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto Alberto Stasi per l’omicidio commesso ai danni della sua fidanzata Chiara Poggi. In primo grado, il Gup del Tribunale di Vigevano ha escluso che fosse emersa la prova diretta a dimostrare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio. La Corte d’assise d’appello di Milano ha confermato la sentenza assolutoria di primo grado rilevando che «la prospettazione accusatoria non era affatto logica, coerente e l’unica possibile nell’ambito del complessivo quadro processuale emerso»79. Nonostante una doppia conforme, la Corte di cassazione, a seguito del ricorso presentato dal Procuratore generale, muovendo dal preliminare rilievo che la prova di natura indiziaria o critica non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta o storica80, ha annullato la sentenza d’appello affermando che, a proprio giudizio,« è difficile pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza» e quindi «risulta impossibile condannare o assolvere Alberto Stasi»81, preferendo però non confermare l’assoluzione disponendo ulteriori accertamenti scientifici. Nel giudizio di rinvio, il collegio giudicante ha ritenuto l’imputato colpevole dei reati ascrittigli sulla base di una serie di argomentazioni di difficile condivisione82 e in base ad un ragionamento logico-giuridico che, a parere di chi scrive, è stato fortemente influenzato da un altro processo: quello mediatico. A distanza di anni la Cassazione83 ha rigettato il ricorso contro la sentenza di condanna assunta dai giudici meneghini ed attualmente Alberto Stasi sta scontando la sua pena a sedici anni di reclusione. Orbene, in questa vicenda qualche dubbio sorge in relazione al rispetto dei principi consacrati nell’art. 111 della Costituzione e delle garanzie processuali dell’imputato a causa del processo mediatico attivatosi durante le indagini. Infatti, proprio in questa fase i giornali e i programmi televisivi iniziarono ad occuparsi del caso concentrando tutte le attenzioni sul fidanzato della ragazza. Ovunque si parlava dell’indagato come un ragazzo dal carattere introverso, addirittura il colore dei suoi occhi – definiti «azzurri come il ghiaccio» - rappresentava per i media un elemento di prova instillando la convinzione nell’opinione pubblica che in realtà quel viso angelico nascondesse la verità su un delitto così atroce. Ed allora il popolo televisivo, come un atto di fede e non secondo le leggi dello Stato, ritenne che soltanto lui potesse essere il colpevole. In questo senso, non si può negare che i mass media spesso creano, nell’opinione pubblica, un’idea sfavorevole dell’imputato, generando, di fatto, un desiderio di condanna. E non si può negare che una certa influenza possa essere esercitata anche sui giudici facendo venir meno la serenità nel giudizio e l’imparzialità. Il processo, dunque, se anche ineccepibile dal punto di vista procedurale, potrebbe essere viziato dall’opinione comune di stampo colpevolista conducendo, così, nei casi più gravi, ad un errore giudiziario84

Orbene, nel caso in esame non è difficile ipotizzare che i mezzi di informazione abbiano potuto influenzare l’arduo lavoro del magistrato e degli investigatori contaminando la delicatissima fase delle indagini che, precedendo il processo vero e proprio, ne ha potuto condizionare in maniera determinante lo sviluppo e la conclusione. 85. Ed allora, condivisibili sono le parole di una autorevole filosofa la quale sosteneva che «giudicare impone di non vedere, perché solo chiudendo gli occhi si diventa spettatori imparziali». Sembra dunque necessario, in tale ambito, introdurre una disciplina rigorosa che vieti la strumentalizzazione dei processi penali nei programmi televisivi oppure creare norme dirette a garantire lo svolgimento di determinati processi a porte chiuse soprattutto quando la complessità tecnico-scientifica della materia possa condizionare l’opinione pubblica e condurre ad errori di valutazione in grado di influenzare anche l’organo giudicante.

6. Gli strumenti riparativi delle imputazioni e delle condanne ingiuste

Prevenire gli errori giudiziari significa non soltanto predisporre dei meccanismi di protezione di un soggetto all’interno del processo penale, ma anche proteggere la società da un esercizio arbitrario del potere punitivo Statale. La Costituzione, infatti, prevede dei rimedi straordinari per correggere l’errore qualora, dopo il passaggio in giudicato di una sentenza, emergano nuovi elementi di prova per i quali si può ritenere che il soggetto non doveva essere condannato. Gli artt. 643 ss. c.p.p. disciplinano le condizioni e le modalità per la riparazione dell’ingiusta condanna86 vale a dire, da un lato, l’esistenza di una sentenza di proscioglimento pronunciata a seguito di un processo di revisione87 e, dall’altro, la non riferibilità dell’errore in via esclusiva alla condotta del condannato88.

Quanto alla natura giuridica della riparazione, la Corte di Cassazione89, risolvendo un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale90, ha escluso che essa abbia carattere risarcitorio, diversamente da quanto accade in diversi paesi europei, e pur riconoscendo l’equivocità del concetto di indennizzo, ha assimilato l’istituto disciplinato dall’art. 643 c.p.p. a quelle ipotesi di indennità corrisposte in presenza di attività conformi all’ordinamento che, però, producono un danno meritevole di essere riparato. In altre parole, la responsabilità statale deriva non dall’illegittimità della sentenza pronunciata dagli organi che amministrano la giustizia, ma dal successivo accertamento della sua erroneità. L’accoglimento della richiesta di revisione91 fa sorgere due ordini di conseguenze. La prima, che ha carattere ripristinatorio, comporta la restituzione delle somme pagate a titolo di pena pecuniaria, di misura di sicurezza patrimoniale, di spese processuali e di mantenimento in carcere e di risarcimento dei danni in favore della parte civile nonché la restituzione delle cose confiscate, salvo i casi di confisca obbligatoria, e la cancellazione della sentenza di condanna dal casellario giudiziale. La conseguenza più rilevante dell’accertamento dell’errore è, però, la riparazione pecuniaria che è indeterminata nel massimo e deve essere «commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali o familiari derivanti dalla ingiusta condanna» (art. 643, comma 1, c.p.p.)92. Sono oggetto di riparazione tutti i pregiudizi patrimoniali e non93, anche imprevedibili, che siano effetto diretto e immediato della decisione ingiusta, con l’unico limite del divieto di arricchimento della vittima94. La somma in concreto dovuta è determinata con riferimento a parametri equitativi nonostante il termine equa, espressamente indicato nell’art 314 c.p.p. con riferimento alla riparazione per ingiusta detenzione, sia stato estromesso dall’art. 643 c.p.p.95. Proprio il carattere equitativo della riparazione esclude l’esistenza di un onere probatorio in capo all’istante il quale sarà tenuto ad un mero onere di allegazione, a prospettare, cioè, che la illegittima restrizione della libertà personale abbia generato conseguenze negative sul piano personale e familiare, conseguenze delle quali si vuole che il giudice tenga conto nella determinazione del quantum da liquidare. Quale che sia la natura giuridica del ristoro economico riconosciuto alla vittima di una falsa giustizia, la libertà personale ha un valore inestimabile che non può essere quantificato in termini monetari96.

Il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario si differenzia dalla riparazione per ingiusta detenzione prevista dagli artt. 314 e 315 c.p.p.97 poiché quest’ultima consente all’imputato di ottenere un’equa riparazione per aver subìto un’indebita custodia cautelare98. Essa assolve, in chiave solidaristica, alla funzione di compensare la vittima delle sofferenze ingiustamente patite e, dunque, non vi sono dubbi nel ritenere che anche questo strumento riparatorio abbia natura indennitaria determinando il sorgere di una responsabilità da atto lecito in capo allo Stato e di un diritto soggettivo pubblico in capo alla vittima99. La dottrina100 ha individuato due nozioni di ingiusta detenzione ricavabili dall’art. 314 c.p.p.: quella di ingiustizia sostanziale, prevista dal primo comma, e quella di ingiustizia formale ricavabile dal secondo comma. Nel primo caso, il diritto all’equa riparazione spetta a colui che, dopo aver subìto una restrizione della libertà personale, sia stato assolto con sentenza irrevocabile con una delle formule indicate dal legislatore che evidenziano la volontà di rendere riparabili unicamente le decisioni particolarmente qualificate nel senso dell’innocenza101. Sono state così selezionate accanto alle tradizionali formule in facto (il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso) quelle in iure (il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato) che, benché possano lasciar sussistere profili di responsabilità civilistica, sono comunque espressive dell’insussistenza dei presupposti attinenti al fatto e alla responsabilità del suo autore, che legittimano l’esercizio della pretesa punitiva102.

Le ipotesi di ingiustizia formale, invece, si riscontrano quando, con decisione irrevocabile, risulta accertato che il provvedimento applicativo della misura custodiale è stato emesso o mantenuto in assenza delle condizioni previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.103 In questo caso, i soggetti destinatari della riparazione sono sia il prosciolto che il condannato poiché ciò che rileva è l’illegittimità del provvedimento cautelare accertata con decisione irrevocabile assunta dal giudice cautelare o dallo stesso giudice di merito104. A differenza della riparazione dell’errore giudiziario, in caso di accoglimento dell’istanza per ingiusta detenzione105 l’entità della riparazione non può eccedere il limite di 516.456,90 euro. Nella determinazione della somma da liquidare, secondo la giurisprudenza dominante, devono essere presi in considerazione una serie di fattori tra i quali la durata e le modalità di esecuzione della misura cautelare106, il pregiudizio psico-fisico e patrimoniale107, il danno all’immagine108 e il tipo di sentenza emessa nei confronti del richiedente109. Viceversa, la domanda è rigettata quando si accerta la sussistenza di una delle cause ostative previste dall’art. 314 c.p.p., vale a dire che l’istante abbia dato causa o concorso a dar causa, con dolo o colpa grave, al provvedimento restrittivo. Il soggetto sottoposto a misura cautelare, per vedersi riconoscere la riparazione, non deve aver assunto un comportamento consapevole ed idoneo ad ingannare il giudice, preordinato all’adozione o al mantenimento della misura cautelare ovvero non deve aver posto in essere una condotta caratterizzata da non curanza, negligenza, incuria e indifferenza per le conseguenze dei propri atti ai fini penali110. D’altro canto, il giudice della riparazione nel valutare la sussistenza del dolo o della colpa grave può utilizzare sia gli esiti delle intercettazioni, salvo che queste siano state dichiarate inutilizzabili nel giudizio di merito111, sia le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da soggetti che, poi, in dibattimento si siano sottratti all’esame o abbiano ritrattato, a meno che il giudice della cognizione, attraverso un esame dell’intero quadro probatorio, abbia ritenuto tali soggetti inattendibili112. Maggiori problematiche si pongono nei casi in cui l’interessato scelga, nell’esercizio del diritto di difesa, di serbare silenzio o rendere dichiarazioni false in sede di interrogatorio. Ci si chiede se in questi casi il silenzio, la reticenza o il mendacio possano essere valutati dal giudice della riparazione ostacolando di fatto il riconoscimento dell’indennizzo. Sul punto la giurisprudenza dominante ritieneva che la facoltà di non rispondere poteva assumere astratta idoneità a costituire un requisito ostativo della ingiusta detenzione laddove «l’interessato sarebbe stato in grado di indicare specifiche circostanze idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere o far venir meno il valore indiziante degli elementi investigativi che determinarono l’emissione della misura cautelare»113. È su questo aspetto che la Corte d’appello di Firenze ha respinto la richiesta di indennizzo avanzata da Raffaele Sollecito definitivamente assolto dall’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher insieme all’ex fidanzata Amanda Knox. Il giudice, infatti, ha ritenuto che il giovane «già nel corso delle indagini preliminari, e specificamente nella loro fase iniziale, ha reso dichiarazioni contraddittorie o non veritiere, che hanno contribuito a far emettere e poi a far mantenere a suo carico la misura cautelare»114. Appare evidente che una diversa condotta avrebbe consentito una differente valutazione della sua pericolosità rispetto a quella che motivò l’emissione e il lungo mantenimento della misura coercitiva. Dunque, ad avviso del giudice, lo stesso indagato ha fortemente contribuito alla causazione dell’evento dannoso tale da ostacolare il riconoscimento del diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione subìta.

Sotto questo profilo, deve darsi conto della recente modifica dell’art. 314, comma 1, del codice di rito ad opera dell’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. 8 novembre 2021, n° 188: l’ultimo periodo della disposizione prevede ora espressamente che «l’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’art. 64 comma 3 lett. b) non incide sul diritto alla riparazione». Sul punto è intervenuta anche la giurisprudenza specificando che la condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere non incide sul diritto alla riparazione. Per l’effetto, ai fini della verifica della condizione ostativa al diritto alla riparazione di cui all’articolo 314, comma 1, ultima parte, (l’avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare subita per dolo o colpa grave), non può più attribuirsi rilievo al solo silenzio eventualmente serbato dall’interessato nel corso degli interrogatori115. Dunque, con la modifica normativa in esame si è inteso adeguare la legislazione nazionale alle disposizioni della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, con specifico riferimento, nel caso in esame, alla emanazione di norme comuni sulla protezione dei diritti procedurali di indagati e imputati116. L’ordinamento giuridico italiano non disciplina alcuno strumento riparatorio nei casi in cui non è applicabile la riparazione per ingiusta detenzione, cioè quando un soggetto viene ingiustamente processato perché colpito da una imputazione ingiusta e successivamente viene assolto con formula ampiamente liberatoria. Bisogna prendere atto che anche la mera pendenza del processo penale genera delle conseguenze negative nei confronti dell’accusato, a prescindere da una sentenza di assoluzione o di condanna. Soltanto con il D.M. 20 dicembre 2021, attuativo della legge n. 178 del 2020 (legge di bilancio)117, accanto alla riparazione per errore giudiziario e per ingiusta detenzione e alla riparazione del danno cagionato dalla durata irragionevole del processo, si è introdotto un meccanismo che riconosce al soggetto destinatario di una sentenza di assoluzione divenuta irrevocabile - pronunciata ai sensi dell’art. 129 c.p.p. o ex art. 530, comma 1, c.p.p., con la formula «perché il fatto non sussiste», «l’imputato non lo ha commesso», «perché il fatto non costituisce reato» o, infine, «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» - il diritto al rimborso delle spese legali sostenute per la difesa in giudizio. La normativa in esame lascia fuori dal novero dei provvedimenti per cui è possibile chiedere il rimborso sia la pronuncia di archiviazione che la sentenza di non luogo a procedere emessa all’esito dell’udienza preliminare. Se nel primo caso l’esclusione appare condivisibile, dato il mancato esercizio dell’azione penale, nella seconda ipotesi deve condividersi l’opinione di quella parte della dottrina che, facendo leva sulla identità delle formule di proscioglimento contenute negli artt. 129 e 530, comma 1 c.p.p., ritiene non comprensibile il mancato riferimento anche all’art. 425 c.p.p.118.

L’istanza, che deve essere presentata dall’imputato personalmente tramite piattaforma telematica sul sito del ministero della giustizia, deve essere corredata da una serie di documenti che attestano gli esborsi effettuati per remunerare il difensore di fiducia e le spese sostenute per consulenti tecnici, investigatori privati e interpreti119.

Tralasciando i dubbi di legittimità costituzionale che si annidano nella previsione di alcune cause ostative120 e della cifra stanziata121 che di per sé è insufficiente a soddisfare tutte le richieste, l’intervento normativo va salutato con favore in quanto ha colmato una irragionevole lacuna del sistema italiano garantendo, in virtù del principio di equità, un ristoro economico anche al soggetto che non avrebbe dovuto essere sottoposto ad alcun procedimento penale quando l’accusa elevata a suo carico si è rivelata infondata.

Conclusioni

Le riflessioni sin qui svolte fanno emergere la necessità, sempre più marcata, di prestare maggiore interesse al tema degli errori giudiziari attraverso un approccio che dia vita ad un mutamento culturale rispetto al fenomeno di cui si tratta in modo da predisporre dei meccanismi che siano in grado, prima ancora che di riparare, di prevenire il patimento di chi, ingiustamente condannato, finisce in carcere. L’obiettivo è quello di evitare di allontanare il processo penale dal suo traguardo ultimo tenendo conto che solo il rispetto rigido dei principi costituzionali può evitare la condanna di un innocente. Anche in ambito europeo il tema in esame non è stato ancora oggetto di attento dibattito; sussiste, infatti, un disallineamento delle tutele previste dai diversi Stati dell’Unione i quali regolamentano in maniera del tutto eterogenea i criteri di quantificazione degli indennizzi/risarcimenti122, come se il valore della libertà personale dipendesse dall’appartenenza ad un determinato popolo. In quest’ottica, i governi potrebbero suggerire, nell’ambito delle iniziative da assumere nel settore della Politica della giustizia e degli affari interni dell’Unione europea (artt. 76 ss. TFUE), un’armonizzazione dei criteri suddetti al fine di assicurare un ristoro uniforme e un’equiparazione di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione. Sul versante interno, poi, le sentenze e le imputazioni ingiuste risultano ancora tante, troppe. Studi statistici dimostrano che negli ultimi trent’anni i casi di ingiusta detenzione sono stati 29.752, settecentocinquanta soltanto nel 2020 mentre nello stesso anno i casi di errore giudiziario in senso stretto sono stati 16123, soltanto 7 nel 2021124, un po’ meno rispetto agli anni precedenti perché l’emergenza sanitaria per Covid-19 ha rallentato la macchina giudiziaria. C’è da sottolineare che il numero esorbitante di errori incide in maniera significativa anche sul costo dell’amministrazione della giustizia che nel 2020 è stato di 43,9 milioni di euro125, ma il dato ancora più sconcertante è che i criteri di liquidazione degli indennizzi sono applicati in maniera difforme nei diversi distretti di Corte d’appello. Dunque, è auspicabile che i pubblici poteri effettuino un’inversione di marcia incoraggiando iniziative dirette a promuovere la consapevolezza delle problematiche investigative e giudiziarie attraverso l’analisi dei casi concreti, ad effettuare ricerche che individuino e classifichino le fonti umane di errore, ad elaborare protocolli e linee guida che andranno aggiornate sulla base delle esperienze e del progredire delle acquisizioni scientifiche126, a puntare alla formazione degli avvocati e dei soggetti deputati alla attività investigativa fornendo loro procedure standardizzate da seguire e, infine, a responsabilizzare gli organi di informazione in modo da preservare la verginità cognitiva del giudice e far sì che la sua decisione non sia influenzata dall’opinione pubblica ma sia frutto del libero convincimento basato esclusivamente sulla valutazione delle prove. Soltanto così si realizzerebbe un progresso in tale settore che consentirebbe di restituire al processo penale la sua vera identità: punire i criminali e assolvere gli innocenti.

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Publication Dates

  • Publication in this collection
    28 Nov 2022
  • Date of issue
    Sep-Dec 2022

History

  • Received
    13 May 2022
  • Reviewed
    31 May 2022
  • Reviewed
    23 June 2022
  • Reviewed
    14 July 2022
  • Reviewed
    22 July 2022
  • Reviewed
    03 Aug 2022
  • Reviewed
    30 Aug 2022
  • Accepted
    12 Oct 2022
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